
Enrico Leopoldo Paganini, “Il Prisca” nome di battaglia tra i partigiani, mi accoglie con un sorriso e con una forte stretta di mano. Negli occhi la voglia di raccontare una vita dura, ricca di dolore ma anche di gioia. Novant’anni trascorsi velocemente e ricoprendo sempre ruoli diversi: contadino, operaio in filatura e fonderia, militare, partigiano e, per 30 anni, impiegato nella Cassa Rurale ed Artigiana di Busto Garolfo. Un’esistenza caratterizzata dalla voglia di imparare, di crescere, di formarsi, ma anche dalla seconda guerra mondiale, dalla durezza di quegli anni e dalla vita da partigiano, di cui parla con orgoglio e che, a 70 anni dal 25 aprile 1945, è doveroso ricordare. Enrico è nato il 13 luglio 1920 a Busto Garolfo e ha trascorso la sua gioventù vivendo il paese, l’oratorio e la chiesa. Dopo la visita medica militare, è arruolato nell’esercito italiano il 28 gennaio 1939. Nel marzo 1940 riceve la cartolina di precetto ed entra a far parte del 77° reggimento Fanteria, Divisione Lupi di Toscana, Brescia. La vita della caserma era piuttosto difficile e, come ricorda Enrico, non solo non mancavano le angherie, ma la pressione psicologica era forte. Bisognava crescere con l’idea che la guerra fosse giusta, che il regime fosse l’unica religione. Gli stessi capitani ripetevano calorosamente: “Se alla guerra sarete chiamati, per avere la coscienza a posto, prima di morire dovete essere certi di aver ammazzato due nemici”. Aderire alla guerra e al fascio era un’imposizione. Dal 1940 fino all’ 8 settembre 1943, con la dichiarazione di Badoglio dell’armistizio di Cassibile, Enrico è lontano dal territorio milanese. Dapprima sul confine con la Francia, poi trasferito in Albania, infine dopo tre mesi il rientro in Italia. Questo periodo è segnato da momenti molto dolorosi, tanto che ancora oggi il partigiano si emoziona ricordando i compagni persi e i soprusi affrontati. Dell’Albania ricorda la fame, il freddo, le punture d’insetto e la costante paura della morte; l’unica forza era data dalla fede, mai abbandonata, e dal pensiero della famiglia lontana. «Nonostante tutto si scherzava e poi volevamo recitare il rosario. Perché non sapevamo se avremmo mai rivisto il sole», ricorda Enrico che, a causa delle infezioni procurate dalle punture d’insetto e del forte deperimento, viene fatto rientrare in Italia. Recuperate le forze, è inviato a Bergamo, con un diverso reggimento, il 112° fantria, divisione Piacenza. Grazie alle sue capacità e abilità, è selezionato e inviato dapprima ad Albenga, infine a istruire le nuove reclute sull’uso del cannone. La vita da militare prosegue fino all’annuncio dell’8 settembre. Da quel momento Enrico può prendere la sua prima e vera decisione: ritornare dalla sua famiglia e riabbracciare la madre. Questo percorso si rivela travagliato; dismessi i panni da soldato e riabbracciata la vita da civile, Enrico trova un’umile ma calorosa ospitalità nelle famiglie che incontra lungo il tragitto per raggiungere casa. Le vicende che seguono il ritorno sottolineano ancora di più il coraggio e la forza di Enrico. Il primo aprile 1944 si arruola nei partigiani della formazione Carroccio e, come sottolinea, «questa era una scelta volontaria: al tempo del fascio o obbedivi o ti fucilavano; qui si trattava di decidere, di rischiare, coinvolgendo anche le persone a te vicine».

La vita da partigiano si viveva utilizzando come riparo le stalle, dentro giacigli improvvisati di paglia con le sole coperte per scaldarsi, e trovando riparo nei cascinali lontani per non mettere a rischio la vita dei propri cari. Fra gli episodi più significativi, Enrico racconta di quella volta in cui lui e un amico si erano offerti di trasportare delle armi. Questa operazione avveniva utilizzando una grossa borsa caricata sulla bicicletta. I due giovani erano ben consapevoli che, se sulla loro strada fossero incorsi in un blocco di controllo, avrebbero rischiato la vita: li avrebbero perquisiti e, una volta trovate le armi, li avrebbero giustiziati. Non restava che sperare: Enrico portava le armi e, in caso di sventura, l’amico, armato di pistola, nascosta sotto la camicia, lo avrebbe difeso sparando. Alle porte di Legnano si imbatterono in un blocco fascista. Enrico racconta che, per sfuggire al blocco e evitare che si aprisse il fuoco tra loro e i fascisti, fece “una volata come non mai: mancava che dalla bicicletta si staccassero i pedalini”. Lo seguirono, ma, a sangue freddo, riuscì a seminarli svoltando in una via secondaria, superò i cancelli della ferrovia, fortunatamente aperti, e si allontanò in aperta campagna. L’amico lo seguì in lontananza senza la necessità di intervenire. L’amarezza e la tristezza nelle parole del partigiano è soprattutto per le persone morte nel corso della Resistenza: «Si trattava di una guerra civile tra gente dello stesso popolo che però credeva in ideologie diverse e, per sostenerle, visse esperienze drammatiche». In questo flusso di ricordi, trova spazio anche un cenno a quello che, nei decenni passati, fu la nostra banca: «La Cassa Rurale ed Artigiana di Busto Garolfo ha permesso un maggiore sviluppo edile del paese», ricorda Enrico, che vi ha lavorato dal 1953 al 1980. «Le famiglie residenti nel Comune erano molto grate alla banca, in quanto consentiva loro di ottenere più facilmente i finanziamenti senza richiedere gravose credenziali. E, soprattutto, si rapportava alle persone in maniera comprensiva e umana». Dopo quasi tre ore di intervista, Enrico è stanco per la chiacchierata; mi ha raccontato la sua vita con una tale partecipazione che sembra aver rivissuto tutti quegli anni in un pomeriggio. Una domanda però resta in sospeso nella mente di Enrico: «Perché io ho avuto la fortuna di superare tutto questo? Perché sono riuscito a ritornare a casa?». Il suo pensiero va a quelle persone rimaste in Albania, in Russia, in Grecia o Africa, alle famiglie che lo hanno accolto e ospitato come un figlio, ancora si commuove ripensando alla famiglia che, ospitandolo per una sola notte, gli ha offerto il prosciutto conservato per festeggiare il ritorno del figlio combattente, in fuga come lui, verso casa. E noi possiamo solo ringraziare il coraggio di quest’uomo e augurarci che questi fatti possano rimanere vivi nella memoria delle generazioni future.