PMI, più forte chi è resistito alla crisi

Secondo l'analisi condotta da SDA Bocconi sulle piccole e medie imprese fra il 2007 e il 2012 le 47mila aziende sopravvissute alla crisi sono cresciute del 26%. Ma è pesante il saldo del sistema: sono stati persi in tutto 405mila posti di lavoro e 120 miliardi di euro

Quello che non uccide fortifica: non è la morale cinica spendibile dai sopravvissuti alla peggior crisi conosciuta da decenni a questa parte; è, in pillole, il risultato del lavoro presentato a luglio dall’Osservatorio sulla competitività delle piccole e medie imprese promosso dal Knowledge center dell’SDA Bocconi. La rilevazione ha analizzato i bilanci delle 56mila pmi italiane dal 2007, ossia ante crisi, al 2012. Pmi sono considerate le aziende con un fatturato compreso tra i 5 e i 50 milioni di euro. Alla fine del 2012 erano scomparse quasi 9mila aziende (il 15%) ed erano stati persi oltre 405mila posti di lavoro, per una perdita di fatturato che si stima in 120 miliardi di euro, ma le aziende sopravvissute avevano segnato un tasso di crescita del 26%, l’equivalente di una crescita media annua del 4,8%. Va detto che il processo di crescita non è stato regolare ma caratterizzato da uno stop marcato nel 2009 (-5,3%) e da un 2012 a crescita media contenuta (+1,6%), dove metà della popolazione ha presentato una crescita negativa. Per restituire la consistenza del campione analizzato basti pensare che le quasi 47mila imprese sopravissute e passate sotto la lente dell’Osservatorio, pur rappresentando soltanto il 6,1% delle imprese italiane, producono il 39% del Pil e occupano quasi 2 milioni 300mila persone. Come prevedibile la maggioranza di queste aziende è localizzata nel Nord: il Nord Ovest, in particolare, ne conta il 38,3%, il Nord Est il 27,5%, il Centro il 19,1% e Sud e Isole il 15,1%. Regione guida è la Lombardia con il 28,8%, seguita da Veneto con l’11,9% e dall’Emilia Romagna con l’11%.

Il grafico evidenzia il trend di crescita del fatturato delle PMI tra 2007 e 2012. Nella tabella sotto il confronto fra PMI e le aziende di dimensioni maggiori: le prime registrano migliori risultati. I grafici sono tratti dallo studio SDA Bocconi.
Il grafico evidenzia il trend di crescita del fatturato delle PMI tra 2007 e 2012. Nella tabella sotto il confronto fra PMI e le aziende di dimensioni maggiori: le prime registrano migliori risultati. I grafici sono tratti dallo studio SDA Bocconi.

Le prestazioni economico finanziarie delle pmi, come detto, hanno visto una crescita tra 2007 e 2012 con uno stop deciso nel 2009, quando ben il 61,5% delle imprese non è cresciuto, e un altro rallentamento nel 2012, anno in cui il 50,3% delle imprese ha visto ridursi il proprio fatturato. «Dal nostro osservatorio locale, che spazia su un territorio tradizionalmente forte per l’imprenditoria e con un tessuto molto radicato di pmi, abbiamo notato una situazione molto differenziata fra le aziende –dice il presidente della Bcc Roberto Scazzosi–. Sono risultate avvantaggiate, in questi anni difficili, le aziende aperte al mercato internazionale e che hanno saputo innovarsi sotto il profilo dell’organizzazione interna, dei prodotti e dei processi interni». Misura della crisi è stata per le aziende la riduzione del ROE (sceso dall’11,7% del 2007 all’8,2% del 2012), indice della redditività del capitale proprio dato dal rapporto fra reddito netto e capitale netto. Nel 2007 le aziende con ROE negativo erano il 15,6%, alla fine del 2012 il 18,9%; diminuito, ma sempre superiore al 20% la quota di aziende con un ROE superiore al 20%, che erano il 27% nel 2007 e il 21,6% cinque anni dopo. L’altra grandezza termometro della salute delle imprese, il ROI (rapporto fra risultato operativo e capitale investito netto operativo) vede un calo nell’arco dei sei anni dal 9,4 al 6,5% con un aumento delle imprese con ROI negativo, dall’11,1% al 16,7% e una diminuzione della quota di imprese con un ROI superiore al 20%, passate dal 13,4% del 2007 al 9,2% del 2012. Note negative anche sotto il profilo dell’indice di redditività delle vendite, il ROS, passato dal 4,6% del 2007 al 3% del 2012. Risvolto positivo degli anni difficili della crisi è stato il rafforzamento della solidità patrimoniale (totale debiti/patrimonio netto), dimostrato dalla riduzione di mezzo punto del Debt Equity Ratio. Resta il punto debole dell’indebitamento delle imprese: per ogni euro di capitale proprio, infatti, 2,4 euro sono prestati. La ricerca ha preso in esame anche la capacità delle pmi di ripagare il credito; una capacità che si è deteriorata fra il 2007 e il 2009 (da 5 a 6,6) e rimasta sostanzialmente identica tre anni dopo. La grandezza, data dal rapporto fra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo, ha visto un andamento analogo per le imprese più grandi, quelle con un fatturato che supera i 50 milioni di euro, salita dal 4,8 del 2007 al 6,4 del 2012. L’analisi evidenzia che le imprese con un’ottima capacità di ripagare il debito sono passate dal 26,7% al 21,3%, mentre quelle in difficoltà finanziaria sono cresciute dal 17,1% al 26,3%. Altro aspetto caratterizzante degli anni della crisi è stata l’incidenza degli oneri finanziari sulle imprese, che, dopo il picco del 2008, ha conosciuto una diminuzione in linea con la diminuzione dei tassi di interesse cominciata nel 2009. Nel 2012, per la prima volta, le pmi hanno ridotto gli investimenti con l’intento di ridurre l’esposizione bancaria. «Se i tassi d’interesse tornassero ai livelli del 2008 –ha sottolineato il responsabile dell’osservatorio Federico Visconti– il costo in termini di maggiori oneri sul debito salirebbe di circa 3,7 miliardi di euro». Un cenno al ciclo commerciale, che, dal 2007 al 2012, è cresciuto toccando i 96,4 giorni, quasi cinque in più rispetto al periodo ante crisi. Se, infatti, sono diminuite le durate medie dei crediti e dei debiti, i giorni di copertura delle scorte sono passati da 90,6 a 97,3. Dai fondamentali dell’attività alla carta d’identità: il 54% delle pmi ha un fatturato compreso fra i 5 e i 10 milioni di euro, il 34,5% tra i 10 e i 25 milioni di euro, l’11,5% tra i 25 e i 50 milioni di euro. Sono queste ultime, nel periodo preso in esame, a registrare le percentuali più cospicue, sia per crescita sia per diminuzione: nel 2009 la flessione è stata del 6,8% contro il 4,9% e il 5,4% delle altre due categorie; nel 2010, anno picco della crescita, hanno avuto un +13,5% contro il 12,5% delle imprese di seconda fascia e l’11,7% delle più piccole. Sono invece le piccole imprese a brillare per redditività. L’analisi evidenzia, infatti, un rapporto inverso tra dimensione aziendale e redditività, misurata nei termini di ROE, ROI e ROS. Contraltare di questa brillantezza nelle prestazioni per le piccole imprese è la minore solidità finanziaria, data dai rapporti debt/Equity (2,6 per le imprese con fatturato fra i 5 e i 10 milioni di euro, 2,2 fra 10 e 25 milioni, 2,0 per le imprese sino a 50 milioni di euro) e fra oneri finanziari e fatturato (rispettivamente di 1,6, 1,5 e 1,3 per le tre categorie). Dati, questi, che conducono a una conclusione: le aziende più piccole sono di certo le più redditizie, ma devono rafforzare la propria struttura patrimoniale. «La nostra clientela aziendale è costituita per la grande maggioranza di pmi –nota il direttore generale della Bcc Luca Barni–, si tratta di realtà aziendali in tanti casi familiari che negli anni sono cresciute grazie a intuizione, intraprendenza e dedizione. Presentano però, in molte occasioni, un punto debole, l’aspetto patrimonializzazione, che risulta decisivo nei momenti difficili, come sono stati questi anni.

Roberto Scazzosi, presidente Bcc Busto Garolfo e Buguggiate
Roberto Scazzosi, presidente Bcc Busto Garolfo e Buguggiate «In questi anni si sono avvantaggiate le aziende aperte al mercato internazionale e che si sono innovate»

Parlando con le aziende, da tempo, prospettiamo loro un rapporto di autentica collaborazione, in cui la banca sia partner dei progetti delle imprese e queste non dipendano in modo preponderante dal credito. Abbiamo studiato appositi prodotti per la capitalizzazione delle imprese e altri per gli investimenti in nuovi macchinari e attrezzature; aspetti, questi, strategici per la crescita». Altra voce fondamentale per leggere la realtà delle pmi è la struttura proprietaria, un aspetto che dice molto della storia dell’imprenditoria italiana, dei suo punti di forza e delle sue debolezze. Infatti, ben il 60% delle pmi italiane presenta un’elevata concentrazione proprietaria, con un singolo azionista che detiene un controllo diretto superiore al 50%. Il 32,5% delle pmi ha una struttura concentrata, in cui il controllo diretto si aggira sul 40%; soltanto il 7,5% delle pmi vede gli azionisti possedere intorno al 10% delle quote. La concentrazione della proprietà presenta un corrispettivo territoriale, con il Nord della Penisola che vede percentuali maggiori. Il picco della concentrazione proprietaria si tocca nel Nord Ovest, con il 62,8%; nel Nord Est scende al 60,1%; al Centro vale il 58,9%, mentre al Sud il 54,2%. Interessante è leggere il rapporto fra la concentrazione della proprietà e la dimensione aziendale: grandezze che risultano direttamente proporzionali. Per le pmi più piccole la percentuale di alta concentrazione vale il 57,3%, per quelle tra 25 e 50 milioni sale al 67,9%. Indicativo anche il rapporto fra concentrazione della proprietà e longevità aziendale, grandezze inversamente proporzionali che vedono le realtà molto giovani con una percentuale di concentrazione di quasi il 70% che si riduce a poco meno del 54% per quelle adulte e molto longeve; esigenza comprensibile alla luce della necessità, nel corso degli anni, di rinnovare con innesti e nuovi contributi il timone dell’azienda. La concentrazione per le imprese è un fattore che si rivela importante per la crescita; infatti nel periodo preso in esame le pmi più “verticistiche” sono quelle che hanno segnato le migliori performance con una percentuale oscillante fra lo 0,5% e l’1,5% e presentano la maggiore redditività. Alla luce del parametro concentrazione sono, invece, minime le differenze nel rapporto debt/equity ratio; più significative appaiono, invece, le differenze in relazione alla capacità di ripagare il debito: le imprese con una maggiore concentrazione presentano un ciclo commerciale significativamente più breve rispetto a quelle con proprietà frammentata (97,7 giorni contro 108,8). La misura più fedele della crisi che si è abbattuta sulle pmi i questi anni, il conto economico, rivela una flessione del bilancio del sistema dai 22,2 miliardi di euro di reddito operativo del 2007 ai 16,6 del 2012, con un calo percentuale dal 4,5% al 3,1% del valore della produzione. È dai conti economici che si ricava una delle tendenze più significative degli anni della crisi, la diminuzione degli investimenti per ridurre i debiti; un trend cominciato nel 2009, quando le immobilizzazione materiali valevano il 26,6% dell’attivo contro il 25% del 2012; di contro i crediti sono lievitati dal 32,6% al 33,8% (in termini assoluti da 195,6 miliardi di euro a 226,3 miliardi di euro). Da ricordare che, nel 2008, il decreto anti crisi ha introdotto la possibilità per le imprese di rivalutare i beni immobili risultanti in bilancio, quindi il loro peso è stato sempre più marginale e sostenuto esclusivamente da investimenti finalizzati al rinnovo dello stock esistente.

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Luca Barni Direttore BCC Busto Garolfo e Buguggiate «Da tempo, proponiamo alle aziende un rapporto di collaborazione, in cui la banca sia partner dei loro progetti»

Nelle voci del passivo spicca l’incremento del 35% del patrimonio netto nell’arco dei cinque anni; un incremento frutto delle ricapitalizzazioni effettuate dai soci; nello stesso periodo i debiti sono cresciuti del 20%.

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Verso le banche in particolare i debiti delle imprese sono cresciute fra 2007 e 2012 del 25,7%, con un’inversione di tendenza proprio nell’ultimo anno, quando la domanda di credito si è fatta più debole. Fra le tre categorie di pmi, lo studio non evidenzia differenze significative; ad eccezione della maggior incidenza del debito a breve per le realtà di dimensioni maggiori. L’analisi ha anche preso in esame i macro-settori evidenziando le specificità in termini di crescita e di produzione di redditività. Fra le pmi il manifatturiero è di gran lunga il settore più rappresentato con il 36,6%, seguito dal commercio all’ingrosso con il 19,6%; tutti gli altri settori (dalle costruzioni al commercio al dettaglio, dai trasporti e logistica ai servizi alle imprese) sono al di sotto della doppia cifra. In termini di crescita, il primato della ciclicità spetta a manifatturiero e ai trasporti, che hanno avuto le peggiori percentuali nel 2009 (-12% il manifatturiero nel 2009) e le migliori performance alla ripresa della 04domanda (+14,4% il manifatturiero e +13,2% i trasporti nel 2010). La redditività di quasi tutti i settori è peggiorata dal 2007 al 2012; fa eccezione il comparto energia ed estrazioni che vanta un +7,4% nel ROE. Fanalino di coda il commercio degli autoveicoli con un -13,3%. Da evidenziare in tutti i settori un rafforzamento della struttura patrimoniale; manifatturiero in testa con un miglioramento del debt equity ratio dal 2,5 all’1,9. A riprova del cambio strutturale del fare impresa durante la crisi la minore incidenza degli oneri finanziari sul fatturato rispetto al 2007, tendenza cui fanno eccezione il commercio degli autoveicoli e il settore energia ed estrazioni. Proprio quello del commercio degli autoveicoli è il settore che risulta in maggiore difficoltà per ripagare il debito; la maggior solidità finanziaria spetta ai settori Servizi alle imprese ed Energia ed estrazioni. All’interno del manifatturiero, Moda e Meccanica, dopo aver sofferto la crisi, sono ripartiti, mentre Mobile e Arredo hanno pagato il prezzo più alto. Tra le imprese che ce l’hanno fatta quelle di maggior successo (1.165, pari al 2,5% della

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Nel grafico in alto si evidenzia la minor capacità delle imprese di ripagare il debito; una tendenza che non è migliorata nel 2012. Negli altri due grafici il fattore indebitamento letto alla luce del tasso di crescita e della redditività: le meno indebitate sono più redditive,ma crescono meno.

popolazione) presentano profili fortemente connessi fra loro: tasso di crescita positivo, ROI e struttura patrimoniale superiori alla media. Queste pmi sono localizzate soprattutto nel nord est del Paese, hanno dimensioni maggiori e una storia superiore ai 10 anni. I settori di appartenenza sono il manifatturiero (Meccanica e Alimentari e bevande) e il commercio all’ingrosso. Tra le pmi di successo sono state quelle meno indebitate a registrare la migliore redditività operativa. Se poche sono le pmi di grande successo, ce ne sono 7mila 500 che potrebbero diventarlo in forza della loro struttura finanziaria e di performance reddituali superiori alla media, ma i cui tassi di crescita sono stati inferiori alla media. Nel 16% delle pmi che mancano all’appello, ben due terzi, fra il 2007 e il 2013, sono passate da una procedura concorsuale o liquidatoria; una percentuale che cresce dopo il 2009 sino all’83,6% del 2013. Tra le aziende falciate dalla crisi quasi l’80% aveva meno di venticinque anni di storia, mentre la dimensione aziendale non sembra un fattore in grado di fare la differenza. I settori che hanno mostrato una capacità superiore di sopravvivenza sono il commercio all’ingrosso e, in misura minore, il manifatturiero; i più falcidiati sono stati Costruzioni e Commercio di autoveicoli. All’interno del manifatturiero più resistenti appaiono i comparti dei prodotti in metallo, del chimicofarmaceutico e della meccanica; più fragili si sono dimostrati Mobile/ arredo e sistema moda con il 15,8% e il 14,7% rispettivamente.

 

 

 

PER APPROFONDIRE

Gli industriali stanno tra color che son sospesi
Un’economia in attesa. È questo lo scenario delineato dagli industriali dei nostri territori a metà 2014, quando sia Univa – Unione Industriali della Provincia di Varese, sia Confindustria Alto Milanese hanno presentato le indagini congiunturali relative al secondo trimestre dell’anno. In’attesa di che cosa? Di un’evoluzione dei fattori di rischio e di incertezza che si sono creati sul mercato interno e su quelli internazionali. Gli industriali della provincia di Varese, dopo un inizio anno segnato da incertezza e rallentamento della produzione, hanno rilevato un piccolo recupero: nei primi mesi del 2014, infatti, si respirava un’aria di fiducia in Italia e in Europa, e le imprese hanno optato per un ripristino delle scorte in vista di miglioramenti nello scenario globale. Miglioramenti che non ci sono stati, anzi: la ripresa internazionale è rallentata, la domanda interna rimane debole e la situazione geopolitica si è complicata alle porte dell’Europa e in Medio Oriente. Di qui la difficoltà di formulare previsioni a medio-breve termine, e il 61% delle imprese interrogate da Univa prevede, prudenzialmente, una situazione di stasi. La dinamica del portafoglio ordini si è stabilizzata, la cassa integrazione è aumentata dell’8,6% rispetto al trimestre precedente e le esportazioni (ultimi dati disponibili relativi al I trimestre) hanno manifestato un lieve rallentamento. Il comparto manifatturiero dell’Alto Milanese manifesta, seppure a un ritmo lento, la tendenza al recupero della produzione industriale: oltre un terzo delle imprese campione, soprattutto nel comparto meccanico, ha riferito un incremento dell’attività produttiva nel secondo trimestre 2014. Segno più anche per fatturato e nuove commesse, specialmente se si guarda a quelle estere. Da segnalare che, tra aprile e giugno, il prezzo delle materie prime ha continuato a salire, condizione che solo in parte si è ripercossa sui prezzi di vendita comportando, quindi, un’erosione della marginalità. Migliora di poco anche la propensione a investire, con il 52% delle imprese campione che prevede di sostenere spese in conto capitale nei prossimi sei mesi, contro il 47% della precedente indagine. Per questo Confindustria Alto Milanese commenta che «La ripartenza c’è, ma risulta ancora fiacca, in linea con la tendenza nazionale, tant’è che il clima di fiducia, pur in progressivo miglioramento, resta ancora improntato alla cautela».

 

Speranze di crescita ridimensionate per gli artigiani
Non una ripresa, ma un rallentamento della caduta. Di questo ha sempre parlato e continua a parlare Confartigianato Alto Milanese, in relazione alla situazione fotografata dall’ultima analisi congiunturale trimestrale di Unioncamere e Regione Lombardia su circa 1.400 imprese artigiane. Lo scenario dell’Alto Milanese non si discosta da quello lombardo: situazione di stallo, con variazione quasi nulla e negativa della produzione (-0,4% rispetto al primo semestre 2014), sostenuta solo dall’export, e valori prossimi a zero anche per la variazione congiunturale di fatturato e ordini interni. Stime di crescita riviste al ribasso per i prossimi mesi, dunque, anche se sembra che il crollo del commercio estero registrato all’inizio del 2014 stia esaurendo il suo impatto negativo. Di qui il commento del presidente di Confartigianato Imprese Alto Milanese Gianfranco Sanavia: «Abbiamo fiducia nel futuro delle nostre imprese, perché non hanno perso la voglia di innovare e cambiare. Soprattutto in alcuni settori del comparto artigiano, come il tessile e la meccanica, oggi è in atto una strategia di cambiamento, che consente ai nostri artigiani di rimanere sul mercato». A fronte di ordini interni che calano dell1,2%, di un calo dell’Eurozona dello 0,8% e di tensioni internazionali che minano l’export, per Davide Galli, presidente di Confartigianato Imprese Varese, «Parlare di ripresa è ancora azzardato, i mercati sono cambiati (ma le imprese portano la quota del fatturato estero al 39,8%), tenere il passo è difficile. Tante imprese hanno cambiato il loro approccio alla progettazione, alla prototipazione, alla commercializzazione, al rapporto con i clienti. Altre hanno le risorse per farlo, ma hanno bloccato i loro investimenti: non si sa cosa potrà accadere domani. Nonostante le previsioni degli imprenditori siano votate al peggioramento, le imprese non si arrendono: dai capannoni arriva la voce delle macchine e di un cambiamento che si vuole realizzare a tutti i costi. Farlo da soli, però, è impossibile: servono azioni strutturali, oggi più che mai, in grado di colpire alle fondamenta quei gap europei che minano la competitività delle aziende italiane. La pressione fiscale ai massimi livelli, la burocrazia che ancora ingessa la gestione quotidiana delle aziende, il credito che c’è ma non viene dato, le complicazioni che sempre accompagnano l’apertura di una nuova attività sono problemi in attesa di una soluzione rapida. Ma le imprese sono stanche di aspettare».

 

 

 

 

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