«Imprenditori, è necessario ricapitalizzare»

Alessandra Lanza, responsabile Analisi e Ricerca di Prometeia, riprende alcuni dei temi già portati alla luce dal numero uno di Bankitalia Ignazio Visco: «Non c'è un diritto al credito, ma c'è un diritto del cliente di vedersi restituite le risorse lasciate in banca»

Gli imprenditori devono capire che se vogliono uscire da questa situazione devono essere disposti a mettere i soldi in azienda e a ricapitalizzare per ridurre la dipendenza dal debito» così Alessandra Lanza, responsabile Analisi e Ricerche economiche dell’associazione Prometeia, sulla vexata quaestio del credito alle imprese. Una posizione che per tanti versi riecheggia quella del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che così si era espresso su quello che, da tempo, è additato come il problema dei problemi del sistema Italia, il credit crunch: «Non c’è un diritto al credito, ma c’è un diritto del cliente di vedersi restituite le risorse lasciate in banca». La dichiarazione del numero uno di Bankitalia non è rimasta isolata, data l’estrema attualità della posta in gioco con il persistere della crisi. All’assemblea Abi che si è celebrata a Roma in luglio, Visco ha infatti rivolto al mondo del credito un richiamo chiarissimo sulla capacità di fare banca: «In questa fase le banche sono chiamate a decisioni difficili: non far mancare finanza alle imprese solide, evitare il sostegno a quelle senza prospettive. Le politiche di affidamento devono essere basate sulla solidità dei progetti imprenditoriali, non su relazioni e legami che ne prescindano». Che significa non credito sempre e comunque, ma sulla base di un progetto; il che equivale a spostare i riflettori tutti puntati sui cordoni delle banche anche sulle imprese. A riflettere sul ribilanciamento della questione crescita, includendo nel discorso il ruolo giocato dall’attore economico azienda, si è cominciato con più forza dopo le iniezioni di liquidità arrivate dalla Bce e la moratoria creditizia. All’inizio di marzo, sull’organo di Confindustria, il Sole 24 Ore, il fondo di Donato Masciandaro sui rapporti banche – imprese aveva un titolo per cui ogni commento si rende superfluo: “Il tango della crescita si balla in due”. Smentendo il luogo comune per cui il credito, da solo, basterebbe alla crescita, Masciandaro precisa che: «il credito crea crescita solo sotto precise condizioni (…) L’assunzione di rischio che porta verso l’investimento la liquidità raccolta presuppone innanzitutto caratteristiche che l’imprenditore deve garantire. La richiesta di credito deve essere basata su un progetto di investimento credibile». E Masciandaro, per non lasciare ombre, definisce il concetto: «Credibilità significa garantire un flusso atteso di ricavi sano e regolare, con una ragionevole probabilità di successo, un coinvolgimento diretto dei capitali dell’imprenditore». In altre parole, 11quanto più il progetto è rischioso, tanto più l’imprenditore deve essere coinvolto con un impegno in prima persona. «Se il rischio cresce senza che ci siano capitali propri -conclude Masciandaro- la strada giusta non è il credito bancario». E su questo punto, i capitali propri, o patrimonializzazione che dir si voglia, si era soffermato anche il direttore della Bcc Luca Barni, in un’intervista alla stampa locale. Precisato che la Bcc aveva girato al territorio oltre il 60% delle risorse ricevute dalla Bce (e il 30% di quanto arrivato dall’Europa non poteva essere utilizzato), ribadito il trend in ascesa degli impieghi degli ultimi tre anni (4, 5 e 6% sull’esercizio precedente), il direttore ha individuato nel capitale di rischio lo strumento più idoneo per finanziare le sviluppo e gli investimenti delle aziende. «Questo significa che il credito può essere un motore in più per l’economia, ma non può sostituire il motore principale, ossia la capacità di produrre reddito e di reinvestirlo». Il quid della questione, individuato sempre dal Governatore Visco, è dunque, in primo luogo, il basso livello di patrimonializzazione e la struttura finanziaria non equilibrata: questi sono i principali freni alle potenzialità dello sviluppo delle imprese italiane. E quando la fragilità finanziaria si appoggia a un sistema bancario sofferente, per livelli di redditività mai così bassi e per le ingenti svalutazioni dei crediti derivati proprio dai finanziamenti concessi alle imprese stesse, è velleitario sperare di risolvere i problemi. Nelle analisi degli esperti non si riflette soltanto sulla necessità che le imprese abbiano mezzi propri, ma anche su un maggior controllo dei costi. «Occorre avere una visibilità sui flussi di cassa –ha spiegato Giorgio Barbon, consulente in controllo di gestione–; se l’imprenditore sa, ad esempio, che avrà una diminuzione degli incassi dovuta alla stagionalità dovrà garantirsi la liquidità sufficiente per evitare di ricorrere a un nuovo indebitamento». Perché questo non rappresenta la soluzione del problema, anzi rischia di innescare una reazione a catena propagando il problema di un soggetto ad altri. E poi c’è l’altra gamba su cui devono marciare le imprese, la produttività, che in Italia si traduce in abbassamento del costo del lavoro, argomento presente nell’agenda del Governo Monti alla ripresa delle attività di settembre. Anche perché, come è stato ricordato al workshop Ambrosetti di Cernobbio, contrariamente alle altre nazioni europee, in Italia il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è aumentato a livelli record rispetto al 2000. E il Clup è una delle misure più attendibili della produttività esprimendo il rapporto fra il valore totale delle retribuzioni e la quantità prodotta di beni e servizi. Interessante, poi, riflettere su un altro dato, quello delle ore lavorate. Dai dati Ocse emerge che in Italia si passa più tempo al lavoro rispetto alla Germania (1.774 ore contro 1.413 ore all’anno). Addirittura, questa classifica sembra riprodurre un mondo al contrario con il Paese più stakanovista che è la Grecia, dove un dipendente lavora in media il 40% in più di un collega in Germania. Ma per inquadrare correttamente la questione serve considerare, accanto alle ore lavorate in un anno, anche il numero di giorni di ferie. E qui casca l’Italia, perché il nostro Paese è, fra quelli industrializzati, quello che prevede più ferie retribuite obbligatorie (20 giorni l’anno, cui se ne aggiungono 13 di festività). In Olanda, per citare un Paese virtuoso, le ore lavorate sono soltanto 1.379, le giornate di ferie soltanto 20. Aspetti, questi, che concorrono a dare sostanza alla voce competitività. Nella classifica 2012-2013 in materia stilata dal World Economic Forum, se l’Italia è risultata complessivamente quarantaduesima, piazzamento non lusinghiero anche se di un passo avanti rispetto al rilievo precedente, per l’efficienza del mercato del lavoro il posto in graduatoria è addirittura il 127°. Un piazzamento che sconta le debolezze strutturali dell’economia italiana; rigidità del mercato del lavoro in primis. E per il capitolo produttività ecco fare capolino la parola più gettonata da un anno in qua, spread. Nel confronto Italia – Germania il differenziale vale trenta punti: nel 2011 la produttività nel nostro Paese ha registrato una flessione dello 0,4% contro il + 4,5% del dato tedesco. E nell’indagine condotta da Il Sole 24 Ore fra gli imprenditori dei due Paesi sui fattori che ostacolano il fare impresa per gli italiani al primo posto c’è la pressione fiscale (17,1%) seguita dall’inefficienza della burocrazia (16,3%); per i tedeschi la complessità del sistema tributario (18,1%) precede le regole restrittive sul lavoro (16,7%). L’accesso al credito è solo il terzo fattore per gli italiani (14,6%) e il quinto per i tedeschi (7,9%). Serve (anche) altro per la crescita.

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Banche, un’industria che soffre

Se le imprese piangono le banche non ridono. Del resto sono imprese anche loro e vivono tutte le difficoltà del momento. L’istantanea del mondo del credito è stata data a inizio settembre durante il comitato di presidenza Abi: oltre 11mila 600 esuberi, che si sommano alle uscite definite da accordi sindacali in via d’attuazione per “eccedenze” complessive intorno alle 20mila unità. Non ha usato giri di parole il presidente Giuseppe Mussari: «Per le banche la caduta di redditività appare drammatica. L’industria bancaria non riesce più ad avere margini di guadagno». A pesare sono le riforme regolamentari di settore, le necessità di rafforzamento patrimoniale imposte dall’Europa e un costo del lavoro tra i più alti d’Europa. Me se nel resto del Vecchio continente avanza un processo di riorganizzazione, la Riforma Fornero, con l’innalzamento dell’età pensionabile e il prolungamento della permanenza sul posto di lavoro, aggrava il quadro. A questo si aggiunga una tara tutta italiana, «la resistenza al cambiamento, alla riconversione professionale, divenuti ormai imprescindibili -afferma Mussari-: la qualità del personale risulta culturalmente distante dalle nuove esigenze».

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