L’Italia ha cancellato i trentenni. Per loro solo un futuro precario

03Qualche lustro fa, si era nel bel mezzo degli anni ’90, i giornali e il web –che muoveva i suoi primi passi–, erano pieni di discorsi sui “Millennials”, i teenager di allora, la generazione di quelli che avrebbero avuto fra i 18-25 anni proprio allo scoccare dell’anno 2000, passaggio epocale insieme temuto (chi si ricorda l’allarme per l’apocalittico “millennium bug”?) e atteso. “Millennials” era un termine carico di aspettative. La prima coorte demografica colpita dalla denatalità, la generazione che aveva visto svanire la minaccia della guerra fredda, la prima a crescere con i computer e le tecnologie digitali, avrebbe presto conquistato il mondo e ci si chiedeva che cosa avrebbe fatto una volta sostituita la generazione precedente nei posti di potere. Che cosa è successo, poi? Si direbbe che quel passaggio di consegne non sia mai avvenuto e che la crisi abbia colpito ancora più duramente chi nel 2008 si era appena affacciato al mondo del lavoro e oggi ha accumulato uno svantaggio che pesa. A coloro che oggi hanno fra i 30 e i 40 anni i media riservano ben altri appellativi: “Bamboccioni”, generazione “Boomerang” o “Peter Pan” (per la tendenza a ritardare alcuni passaggi all’età adulta); generazione “senza futuro”, o “in saldo” (per la disoccupazione e il precariato che la colpiscono, in Italia ma non solo). Un vero colpo di grazia sono state, un anno fa, le parole dell’allora premier Mario Monti, che in un’intervista a Sette lo disse papale papale: «La verità, purtroppo non bella da dire, è che messaggi di speranza – nel senso della trasformazione e del miglioramento del sistema – possono essere dati ai giovani che verranno tra qualche anno. Ma esiste un aspetto di “generazione perduta”, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni, di trovare formule compensative di appoggio, ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi in qualche modo partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla “generazione perduta”, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di “generazioni perdute”». Il pessimismo di Monti trova ampie giustificazioni nei numeri. Il Rapporto Annuale Istat 2012, che raccoglie i dati del 2011, riportava alcuni risultati specifici per la fascia d’età 30-39 anni: ebbene, i disoccupati risultavano il 25,7% e gli occupati a tempo determinato il 12,6%; nel 1993 queste quote erano ferme, rispettivamente, al 19% e 7,7%. È chiaro che, di fronte alla mancanza di lavoro, l’indipendenza economica, il cui raggiungimento segna davvero il passaggio all’età adulta, non può che essere rimandata. Sempre il Rapporto Istat ci dice che, nel 2011, vivevano in famiglia il 41,9% dei 25-34enni e il 7% dei 35-44enni; nel 1993, si trattava del 33,2% e del 3,5%. Banca d’Italia aggiunge, in un paper dedicato a “Uscita di casa e prezzi degli immobili”, che se non si ha la fortuna di ricevere in dono una casa dai propri genitori diventa sempre più difficile cominciare una vita indipendente, perché gli affitti sono cresciuti di 80 punti percentuali tra il 1998 e il 2006; e che se i prezzi delle case aumentano, poniamo, del 10%, allora si riduce in modo direttamente proporzionale, del 10%, la propensione a lasciare la casa dei genitori. Il costo della vita fuori casa, quindi, continua ad aumentare mentre anche chi un lavoro ce l’ha vede, in media, diminuire il suo reddito –una ricerca dell’ACLI della provincia di Monza e Brianza si è occupata proprio del 30-39enni e ha riscontrato un calo dei redditi in termini reali del 5,39% dal 2008, anno d’inizio della crisi, e il 2011. Altra questione dibattuta, la disoccupazione che colpisce chi ha raggiunto i livelli di istruzione più alti. Degli effetti della crisi ci racconta molte cose il XV Rapporto Alma Laurea. La disoccupazione a un anno dal conseguimento del titolo è aumentata, e parecchio, dal 2008 al 2013 per tutte le categorie di laureati: dal 11,2% al 22,9% per i laureati triennali, dal 10,8% al 20,7% per i laureati specialistici e dal 8,6% al 20,8% per i laureati a ciclo unico (cioè coloro che, secondo l’opinione comune, dovrebbero avere alcune delle lauree più legate a un “lavoro sicuro”, come chimica, farmacia, veterinaria e medicina). Si possono infatti sfatare alcune delle convinzioni più diffuse riguardo l’utilità o meno di certi indirizzi di studio: in Italia non ci sono troppi laureati in discipline umanistiche (ne abbiamo meno della Germania e della media Ocse) e non è vero che i laureati in ingegneria informatica avranno di sicuro uno stipendio interessante (anche dal 2008 al 2012 le loro retribuzioni sono calate del 9%). E, in generale, non è che i laureati siano troppi, anzi: sono solo il 17,6% degli occupati, quando la media UE è del 29,1%; e avere un titolo di laurea è comunque importante per trovare una collocazione nel mercato del lavoro: fra i non laureati il tasso di disoccupazione è più alto del 12%. Se in Italia i giovani laureati faticano a trovare un impiego, quindi, non ci si può comunque permettere di far passare il messaggio che è meglio smettere di studiare e di trovarsi un mestiere. Un Paese che non sa inserire, e non certo da oggi, le sue risorse più qualificate nel sistema produttivo (risorse che peraltro spesso trovano una collocazione più che soddisfacente all’estero) è un Paese che mette un’ipoteca pesante sulla propria crescita. Le soluzioni tampone non sono, di fatto, soluzioni. Lo hanno scritto al Governo Letta sette esperti del mondo del lavoro, tra cui il presidente di ITalents Alessandro Rosina ed Eleonora Voltolina, creatrice del sito “La Repubblica degli Stagisti”. «Ridurre di due punti percentuali la disoccupazione degli under 30, come mira a ottenere il D.l. Lavoro appena approvato, è coerente con la reazione all’emergenza –si legge nella lettera–. Ma bisogna poi agire sui fattori “persistenti” che, più che nel resto d’Europa e da ben prima della recessione, deprimono l’attivazione dei giovani». Abbiamo provato a individuare alcuni punti su cui fare leva assieme ai membri dell’esecutivo della nostra Bcc. Primo: «Le politiche di lavoro non devono essere “per” i giovani, ma devono essere politiche della crescita “con” le nuove generazioni –afferma il vice presidente Mauro Colombo–. Gli incentivi lasciano il tempo che trovano e il cambiamento arriverà migliorando l’efficienza del mercato del lavoro, l’innovazione, la produttività, la competitività». Secondo: «Non sono i giovani a doversi adattare (al ribasso) a quanto offre il mercato –fa notare il vice presidente vicario Ignazio Parrinello– ma è il sistema produttivo a dover fare il salto di qualità. Se l’Italia sa offrire solo lavori poco qualificati e sottopagati non sono solo i giovani a essere frustrati, ma è il sistema-paese stesso a regredire». Terzo: «Le risorse per i giovani non siano marginali –chiede il consigliere Mario Pozzi–. Va riorganizzata la spesa pubblica spostando risorse dalle politiche passive a quelle attive; ridurre sprechi e inefficienze non basta, occorre ripensare a tutte le voci di spesa per orientare gli investimenti alla crescita». Infine, occorrono strumenti per valutare in modo serio e puntuale l’efficacia dei provvedimenti presi. Ricorda il consigliere della nostra banca Giuseppe Barni: «La politica va giudicata sulla capacità di migliorare oggettivamente le condizioni delle nuove generazioni. Altrimenti passeranno sempre e solo vaghe promesse. Da noi mancano monitoraggio e valutazione dell’impatto delle leggi e delle misure adottate dai governi». Insomma, serve una rotta, un obiettivo chiaro su cui puntare. Perché continuare a parlare di generazione “senza futuro” non solo è deleterio, ma non ha senso. Mettendoci davanti la parola “senza” non lo nascondiamo sotto il tappeto: il futuro arriva, comunque. E perché sia un buon futuro, dobbiamo cominciare a crescere, aiutarci a crescere, fin da oggi.

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