Ho scritto e riscritto diverse volte buona parte di questo mio editoriale, che mi sono trovato a chiudere all’inizio di ottobre, ovvero nei giorni in cui è stato registrato il dato più alto degli ultimi cinque mesi sulle nuove infezioni da Covid 19 e in cui si è tornati a parlare dell’ipotesi di ritorno dell’obbligo delle mascherine all’aperto in tutta Italia. E, sicuramente, quando mi leggerete, queste prime poche righe saranno state superate dagli eventi. Perché l’incertezza è l’unico dato vero della situazione che stiamo vivendo, con le nostre comunità che stanno faticosamente tentando di lasciarsi alle spalle l’emergenza Covid 19 e il virus che sembra fare di tutto per rialzare la testa. Con il risultato che tutti siamo un po’ spaesati e che ogni commento sul futuro è preceduto dal ritornello «tutto dipende dall’evoluzione della pandemia e dalle eventuali misure di contenimento che saremo costretti ad adottare». Del resto, la crisi economica che stiamo vivendo è conseguenza diretta delle misure di contenimento che si sono rese necessarie per fronteggiare l’emergenza sanitaria. E il suo andamento è strettamente collegato alla capacità di contrasto del nuovo coronavirus per interrompere il circolo vizioso segnato dall’incertezza. Ed è vero che l’Europa, l’Italia intera, il nostro territorio sono oggi sicuramente più fragili di qualche mese fa. Ma, diciamocelo, nulla a che vedere con i sentimenti e le preoccupazioni che covavano nel 1945: perché chi paragona questa pandemia alla guerra ottiene il solo effetto di far sorridere chi ha vissuto e visto gli eventi bellici. Perché un simile confronto proprio non regge. L’unica cosa che accomuna il 1945 al 2020 è il fatto che dalle situazioni in cui ci si è trovati non si esce in due minuti. E neanche in due mesi. La presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha recentemente ricordato come «le imprese hanno difficoltà, le persone perdono il posto, le prospettive sul futuro restano fragili e la ripresa resta incerta, incompleta e non equilibrata, con i consumatori che restano cauti per l’ansia sul loro lavoro e le prospettive sui salari e le imprese che hanno fermato i piani di investimento».
Insomma, quello che abbiamo davanti è senza alcun dubbio un cammino lungo. E per risorgere, prima ancora che l’apporto economico e politico, serve riscoprire il valore del sociale e serve un forte impegno di ognuno di noi nel suo ambito. Non possiamo aspettare o pensare che arrivi un leader a guidarci fuori dalla crisi. Serve che ciascuno di noi diventi quel leader, per sé e per la sua comunità. Dobbiamo prendere atto che in una situazione come quella che stiamo vivendo non esiste una soluzione semplice e chiara, oppure definitiva, e che è solo con un insieme di azioni fatte da ognuno di noi che si crea il miglioramento. Come Bcc stiamo cercando di fare la nostra parte, stando vicini ai nostri soci, alle nostre famiglie, alle nostre imprese e non abbandonando le comunità che, come i casi di Dairago e Villa Cortese ci insegnano, hanno bisogno di un punto di riferimento fisico, perché non possono essere lasciate sole. Papa Francesco ne è certo e lo ripete da tempo: dalla pandemia si esce migliori o peggiori e la crisi globale chiede un ripensamento dei parametri della convivenza umana in chiave solidale. Nel nostro piccolo, vogliamo testimoniare che i valori di cooperazione e mutuo soccorso che sono alla base dell’azione della nostra banca non verranno mai meno e sono più moderni che mai.
