Il nuovo millennio ha portato con sé numerosi cambiamenti: negli ultimi 15 anni il volto del nostro Paese, in particolare, è mutato e si è evoluto, anche se non sempre in meglio. Come siamo oggi rispetto a quando, forse troppo ottimisti e fiduciosi, abbiamo girato il calendario sulla pagina del nuovo millennio? «Questi anni sono stati incredibilmente veloci e hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere e di disegnare i rapporti umani – afferma il presidente della nostra Bcc, Roberto Scazzosi -. I cambiamenti sono avvenuti così rapidamente che è stato quasi difficile percepirli: gli strumenti tecnologici e di comunicazione ci permettono di fare cose che fino a ieri erano inimmaginabili. Si tratta di modifiche radicali, i cui risultati sembrano tuttavia offuscati da una crisi perdurante».
Gli anni di crisi economica hanno costretto molti a fare i conti con le proprie capacità e potenzialità. Un aspetto che non è necessariamente negativo: «Tutto dipende da quale prospettiva si guardano le cose – osserva il direttore della Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate, Luca Barni -. Il mondo odierno è più veloce e complesso: per qualcuno questo rappresenta una difficoltà, mentre per altri, tra cui mi ci metto anch’io, è un’opportunità. Oggi non è più il pesce grande che mangia il piccolo, ma il pesce veloce che mangia quello lento: bisogna avere la capacità di adattarsi e cambiare e per riuscirci bisogna avere sempre una visione complessiva delle situazioni, cogliendo anche l’invisibile. In questo modo tutto è più stressante, ma anche più stimolante».
Secondo il sondaggio condotto da SWG “Scenari di un’Italia che cambia”, pubblicato a maggio 2015, tre sono gli aspetti principali su cui soffermarsi per analizzare i cambiamenti di questo squarcio di secolo: primo, le difficoltà nel passaggio intergenerazionale, caratterizzate da una parte dalla voglia di cambiare e dall’altra dalle difficoltà nel fidarsi dei giovani dall’altra; secondo, lo sgretolamento del tessuto sociale, conseguenza delle difficoltà economiche di questo periodo; terzo,la spinta verso la vita green, che ha conosciuto in questi anni un vero e proprio boom. Tra i mutamenti principali avvenuti nel nuovo millennio c’è quello della frattura tra vecchie e nuove generazioni, con l’aumento dello scetticismo nei confronti dei giovani. Un dato che cela una contraddizione: se da un lato si sente la mancanza di futuro e si avverte il bisogno di cambiamento, dall’altro il nostro Paese appare arroccato sulla difensiva, aggrappato alle consuetudini del passato e diffidente verso le nuove generazioni che sono giudicate poco affidabili e capaci. Dal 2003 al 2014, la non fiducia verso i giovani è passata dal 54% al 62%, mentre la fiducia nel fatto che i ragazzi di oggi abbiano energie e risorse pari alle generazioni che li hanno preceduti e siano in grado di offrire un apporto significativo al presente è passata dal 46% del 2003 al 31% del 2010, per risalire al 38% del 2014. «La percezione diffusa è che la difficoltà del passaggio generazionale sia aumentata negli ultimi anni, ma in realtà non è mai stato facile – argomenta Scazzosi -. Si pensi al nerbo dell’economia italiana, che è composto da piccole e piccolissime imprese, molto spesso basate su un’unica persona che fatica a passare il timone ad altre, soprattutto in un momento in cui le acque sono agitate. Bisogna prendere atto del fatto che esiste una generazione di uomini che si è fatta da sé, per i quali è fisiologicamente difficile fare un passo indietro e lasciare il posto. Più che di una questione di fiducia verso i giovani, è una questione di personalismo».
Secondo il nostro direttore generale, Luca Barni, il problema è il contrasto tra la generazione dei diritti acquisiti e quella della flessibilità totale. «Ci sono difficoltà di comunicazione tra persone con un vissuto completamente diverso: da una parte le vecchie generazioni che vivono di diritti acquisiti che, come ha detto il Ministro del Lavoro Poletti, quando non sono fondati sono dei privilegi; dall’altra i giovani che vivono nella flessibilità più totale e per cui ogni giorno è diverso dal precedente. Quando un giovane entra da dipendente in banca è pieno di entusiasmo e voglia di fare: mette a disposizione il proprio tempo libero facendo straordinari e frequenta corsi di aggiornamento. Un atteggiamento profondamente diverso da quello della vecchia generazione, che troppo spesso crede di sapere già tutto. Il dialogo tra generazioni è da incentivare perché, quando avviene, è molto proficuo: chi ha più esperienza ha molto da insegnare e i giovani sono molto ricettivi e disponibili a imparare».
Una testimonianza in controtendenza è quella di Mirko Reto, 39enne titolare della TPS Packaging di Ternate, che ha cominciato la propria avventura imprenditoriale poco più che trentenne, nel 2007, appena prima dell’inizio della crisi. «Non sono figlio di imprenditori, ma di operai e impiegati – racconta–. Ho deciso di prendere in mano un’azienda mia dopo una carriera da direttore commerciale e da amministratore delegato di una Spa. Ho cominciato con un’impresa che sviluppa packaging e dopo un paio d’anni ne ho fondato un’altra, conseguenza del bisogno di servizi che ho riscontrato fra la mia clientela». Tutto è nato dalla volontà di rimettersi in gioco, esponendosi in prima persona: «Quando ho deciso di mettere le mie capacità al servizio di un progetto mio – prosegue Reto – ho chiesto supporto alle banche dando una garanzia reale, la mia casa. I miei interlocutori hanno accettato la sfida e mi hanno dato fiducia. Sono partito con un piccolo ufficio e oggi abbiamo una sede di 1.500 metri quadri per due aziende in crescita continua». Nel convincere partner, fornitori, finanziatori e stakeholder l’età, secondo Mirko Reto, passa presto in secondo piano: contano la correttezza e la serietà. Due parole d’ordine che, secondo l’imprenditore di Ternate, valgono soprattutto adesso che siamo reduci da una crisi pesante: «Se oggi avessi trent’anni, rifarei tutto. Vedo piccoli segnali di ripresa e spazi di crescita che è fondamentale occupare ora».
Diversa l’esperienza di Gilberto Alberti, titolare della Alpa Plastic di Galliate Lombardo, imprenditore con oltre quarant’anni di esperienza, che ricorda i tempi in cui essere un “self made man”, com’è stato lui, era indubbiamente più semplice. «I giovani con coraggio e capacità ci sono oggi come c’erano quarant’anni fa: ciò che è cambiato è il contesto –afferma–. Una volta le difficoltà erano dentro di noi, ora si aggiungono quelle che arrivano dall’esterno, sia per gli effetti della crisi, sia per la burocrazia e le regolamentazioni che si accumulano e rendono difficile lavorare nel quotidiano. A questo si aggiunga un sistema bancario che è sempre meno propenso a rischiare».
Se i problemi di passaggio tra generazioni puntano i riflettori sulla fragilità del futuro, per fare luce sulla debolezza del tessuto sociale e relazionale è indicativo concentrarsi sulla dicotomia inclusione ed esclusione. Rispetto al 2005, oggi la forbice tra quanti si sentivano inclusi nel proprio contesto si è invertita e l’ampiezza dell’apertura tra le lame si è andata ampliando, fino al gap di 46 punti di oggi. Dieci anni fa quelli che si sentivano inclusi erano il 54%, dieci anni dopo il 27%. Viceversa, gli esclusi sono cresciuti in modo lento e inesorabile, passando dal 46% al 73% nello stesso periodo. Un processo preoccupante che è riflesso di un’economia traballante, ma anche segnale d’allarme di un possibile rischio sociale. «La crisi che il mondo ha conosciuto in questi anni è stata anzitutto di valori: non dimentichiamoci che tutto è iniziato con le esagerazioni delle finanze statunitensi, ad opera di supermanager che hanno, di fatto, mandato all’aria i rapporti di fiducia esistenti –ricorda il presidente della Bcc, Roberto Scazzosi-.
È chiaro che se si hanno in portafoglio titoli che non valgono nulla o se si presta del denaro che non torna indietro, i rapporti si sfaldano. Allo stesso modo, se si fa domanda per accedere al credito senza averne i titoli, si perde la fiducia, che è la vera moneta dell’economia. La crisi ha reso tutto più guardinghi: nel momento in cui si stringono i cordoni, la diffidenza deflagra ancora di più. Quindi se è vero che tanti giovani demotivati si siedono perché alle spalle hanno famiglie che ne garantiscono la sopravvivenza, ma è fuori di dubbio che oggi è più difficile trovare il proprio posto. Diceva Giovanni Falcone che una società funziona quando tutti fanno il proprio dovere. Oggi fare il proprio dovere significa favorire la compattezza e mettere in circolo fiducia. Come banca è fondamentale dare e ricevere fiducia: per riavviare i motori tutti devono mettersi in gioco e concedere fiducia all’altra parte. Le evoluzioni del mondo del lavoro sono continue e seguono paradigmi di una complessità che prima era sconosciuta. I cambiamenti non devono essere solo un deterrente per qualsiasi iniziativa: è una sfida e soltanto adeguandosi si può restare in gioco».
Molti in questo nuovo millennio si sono rimessi in discussione. Se nel 2003 il 64% delle persone si sentiva inadeguato di fronte ai cambiamenti, oggi la curva si è invertita e la maggioranza degli italiani (il 52% per la precisione) si sente adeguato alle sfide. La capacità di adattamento verso le novità, anche se non sempre gradite, non è certo da sottovalutare. Certo, la quota di inadeguatezza resta sempre ampia, ma la strada appare meno in salita rispetto allo scorso millennio. «Una volta c’erano i lavori “secolarizzati” e questo, per gran parte della classe media, comportava un certo reddito –spiega Luca Barni-. Oggi stiamo assistendo allo sfaldamento della classe media, che ha problemi di perdita del reddito e che ha difficoltà di riconversione. Si va verso un low cost generalizzato e sempre più senza intermediari. Pensiamo al conto bancario online, che piace perché è comodo, senza spese e anche perché consente di non avere contatti con le banche che di solito non sono molto simpatiche. La disintermediazione sta interessando altri settori, come i tassisti che vedono il proprio potere eroso a suon di app dagli autisti di Uber: una recente sentenza ha dato ragione ai tassisti, ma è solo questione di tempo. Il punto è che oggi la classe media è in difficoltà perché non vuole rimettersi in gioco, adattarsi e accettare i cambiamenti. Molti lavori, magari poco prestigiosi ma molto redditizi, sono quasi completamente appannaggio di immigrati. La verità è che con la pancia piena è possibile scegliere quale tipo di lavoro si preferisce, mentre se la pancia è vuota si prende tutto quello che viene: è necessario essere flessibili».
Un trend in netta ascesa in questi anni è invece quello ambientale. I favorevoli ai comportamenti green e una società sempre più ecologica sono passati dal 57% del 2007 al 71% di oggi. Gli italiani sono entrati nel nuovo millennio con la sensazione che l’essere sensibili all’ambiente fosse una moda e nel corso degli anni hanno acquisito la consapevolezza che il tema green sia uno dei più importanti: un comportamento che esprime la convinzione che la tutela dell’ambiente non sia solo una moda, ma una vera e propria esigenza per lo sviluppo del Paese. I “green” sono passati dal 57% del 2007 al 71% del 2014, mentre, nello stesso periodo, i “no green” sono precipitati dal 43 al 29%.
Secondo il contenuto del rapporto sulla green economy 2014 («Le imprese della green economy: la via maestra per uscire dalla crisi») realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e dall’Enea, sono sempre più numerose le aziende che puntano sulla riconversione ecologica. L’ambiente non è più percepito, da molti imprenditori, come ostacolo o vincolo, ma sempre più spesso come opportunità di nuovo sviluppo. E in Italia l’eco-innovazione mostra una tendenza positiva. Nel 2012, secondo la classifica europea, era al quindicesimo posto, nel 2013 è salita al dodicesimo, tanto che ‘il 98% degli imprenditori italiani afferma che si deve puntare sul risparmio e l’uso sempre più efficiente di energia e risorse. Secondo il rapporto GreenItaly 2014, presentato dalla fondazione Symbola e da Unioncamere, l’economia verde italiana è in continua crescita. Sono 341.500 le aziende di almeno un dipendente nel nostro paese che negli ultimi sei anni hanno investito in prodotti o tecnologie ecosostenibili. Una scelta che, dati alla mano, sembra pagare, visto che il 18,8% delle aziende “verdi” ha visto crescere il proprio fatturato nel 2013, contro il 12.6% della media italiana. La fotografia dell’Italia nel 2015 è quella di un Paese in cerca di solidità, rabbioso per ciò che ha perso, impaurito dalle contraddizioni, ma energico, alla ricerca di una guida, di una classe dirigente in grado di ridare dinamismo, forza ed entusiasmo. Lo stesso rinnovato clima sfiducia emerge dal rapporto annuale dell’Istat, secondo cui il 2015 si è aperto con una serie di indicazioni positive, in particolare per quel che riguarda il clima di fiducia di famiglie e imprese. Insomma, i segnali di speranza perché questo nuovo millennio, dopo un inizio difficile, porti con sé un vento di rinnovamento, non mancano.
Le testimonianze
Mirko Reto – Tps Packaging (Ternate, VA)
«Un giovane imprenditore non pensi che l’azienda serve ad arricchirsi. Bisogna lavorare per dare valore all’azienda».
Serietà e correttezza generano fiducia e crescita. Questo è ciò che ho imparato lavorando prima come direttore commerciale e amministratore delegato, e poi diventando imprenditore, nel 2007, quando avevo poco più di trent’anni. All’inizio non è stato facile arrivare davanti a persone di sessant’anni, con moltissima esperienza, e convincerle ad avere fiducia in me e nelle mie idee. Ma ho cominciato dando garanzie reali e dimostrando a finanziatori, fornitori e collaboratori la serietà del mio progetto. Bisogna avere una visione orientata agli altri: per prima cosa ai clienti, che vanno approcciati non con l’idea di proporre loro il proprio prodotto, ma sviluppando il prodotto stesso in base alle loro esigenze, per dare loro una risposta valida. Io credo che un giovane imprenditore sia veramente forte quando non considera l’azienda come un mezzo per arricchirsi personalmente, ma lavora per dare valore all’azienda, patrimonializzandola. Questo è un aspetto fondamentale per rapportarsi con le banche, i fornitori e gli stakeholder, un modo di operare che genera sviluppo per tutti.
Gilberto Alberti – Alpa Plastic (Galliate Lombardo, VA)
«Ai giovani imprenditori manca il tempo per maturare, riflettere e crescere».
Ai miei tempi un giovane che voleva “farsi da sé” cominciava presto e seguiva un percorso quasi obbligato: gli studi, il servizio militare e poi il mettersi alla prova sul campo. Contavano le capacità del singolo. Oggi non è più così. Una grossa differenza che io vedo nelle giovani generazioni è che sono state derubate del tempo. Conosco giovani che lavorano anche dodici ore al giorno, con una routine oppressiva. A queste persone è stato portato via il tempo, e senza tempo per riflettere non si matura, non si cresce. Il tempo di un imprenditore, oggi, viene speso in gran parte per tenere dietro alle difficoltà burocratiche, alle leggi che cambiano in continuazione, alle regolamentazioni confuse e a una tassazione esasperata. Naturalmente non dico che i controlli e le regole non debbano esistere, ma è diventato impossibile soddisfare tutti gli adempimenti richiesti senza impazzire. Il tempo perso dietro queste cose è immane, ed è tutto spazio rubato ai progetti, alla creatività, alla maturazione di una persona.
Michele Pianezza – Cascina Prada (Casalzuigno, VA)
«La realtà non è quella del Mulino Bianco»
Da vent’anni guida una delle migliori aziende agricole della provincia di Varese, che fa della selezione genetica il suo fiore all’occhiello. Michele Pianezza, 42 anni, titolare dell’azienda agricola Cascina Prada a Casalzuigno, che si occupa di allevamento di bovini e vendita di latte, è “imprenditore green” quasi per caso: «L’azienda è stata fondata da mio nonno, che già nel 1986 aveva investito in genetica, precorrendo i tempi – racconta Michele -. Purtroppo è morto improvvisamente quando avevo 22 anni e così ho deciso di rilevare l’azienda. Sono partito da zero, facendo tutta la gavetta e imparando moltissimo». Nel frattempo Michele è riuscito a terminare gli studi e si occupa anche della parte creativa dell’altra azienda di famiglia, che tratta complementi d’arredo e di oggettistica. Oggi l’azienda agricola è una realtà ben avviata, con 80 capi in mungitura e altri 90 che compongono il giovane bestiame, distribuiti su una superficie di 50 ettari. «Sicuramente negli ultimi anni c’è più attenzione verso il “green”, anche se è molto idealizzato rispetto alla realtà: la gente si immagina le praterie della pubblicità, ma la realtà è molto diversa. Si lavora con del capitale vivo e ci sono molte variabili, bisogna essere bravi a limitare il più possibile gli imprevisti».
Cooperazione e mutualismo contro le fragilità
Il senso di esclusione, non solo economica, sperimentato da una parte sempre più grande della popolazione italiana è frutto di una serie di fenomeni ai quali chi opera nel sociale guarda con molta attenzione, cercando risposte al passo con i tempi. Gian Piero Colombo, assessore alle Politiche sociali a Legnano, spiega che negli ultimi anni si sono riscontrati tre fenomeni dirompenti. «L’invecchiamento della popolazione determina l’aumento della domanda di servizi di tipo sanitario; l’immigrazione ha modificato la composizione delle famiglie e reso necessari interventi di mediazione culturale e integrazione, soprattutto scolastica; infine, crisi economica e disoccupazione hanno fatto sì che nuove fasce di popolazione, un tempo autonome, ora manifestino nuovi bisogni. La domanda di sostegno al reddito è cresciuta in modo drammatico». Con il progetto So.Le, acronimo di Sociale Legnanese, undici comuni del territorio si sono associati per gestire questi servizi in maniera congiunta. Bisogna fare rete per sostituire quelle reti che non esistono più: «Un welfare esclusivamente distributivo non è più concepibile –afferma Colombo– Oggi occorre pensare a un welfare di comunità, mettendo insieme competenze, specializzazioni e servizi per operare in modo integrato». Mutualismo e sussidiarietà sono le parole chiave per affrontare le sfide del futuro anche secondo Mauro Frangi, presidente di Confcooperative Insubria: «Di fronte alla contrazione della spesa pubblica da una parte e all’aumentare, dall’altra, delle fragilità, quello cooperativo è un modello che dimostra tutta la sua validità. Non si tratta solo di dare risposte di tipo assistenziale. Le cooperative creano innanzitutto occupazione, e in molti casi, come accade per le cooperative sociali di tipo B, reinseriscono in un contesto lavorativo proprio le persone più escluse». Le cooperative coinvolgono tanti diversi soggetti, che diventano così protagonisti e parte attiva delle comunità in cui operano. «È questa l’unica strada da percorrere –conclude Frangi– di fronte a un welfare pubblico che non garantisce più risposte e a un welfare privato che è però fattore di divario sociale ed esclusione».