Spesso sembra di conoscere tutto della zona in cui si vive e di avere la certezza -o l’impressione- che le cose vadano bene o male in valore assoluto. Poi arrivano le classifiche, quelle che comparano tutte le province d’Italia alla tua, ed emergono delle cose che, forse, proprio non ti aspettavi. E, così, l’indagine presentata al Festival del lavoro 2018 dall’«Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro» italiani ci restituisce uno spaccato sul territorio di competenza della nostra Bcc che ci offre l’occasione per fare un focus sull’economia e il lavoro delle nostre lande.
La prima notizia è di quelle positive -almeno in chiave statistica, poi non è detto che la percezione personale di chi ci legge sia la stessa-: Varese è la seconda provincia italiana per stipendi medi netti del personale dipendente con 1.459 euro, ma nel 2017 lo stipendio medio era di 1.471 euro, e Milano è appena sotto al podio, con una media di 1.431 euro, che in questo caso significa una crescita rispetto allo scorso anno, quando il dato era fermo a 1.409 euro. Per comprendere meglio i dati, va detto che sulla definizione della retribuzione netta mensile influisce la forte incidenza del part-time, soprattutto femminile.
Infatti, se si prendono in considerazione tutti gli occupati dipendenti (full time e part-time) d’Italia, emerge che il 34% delle donne che hanno un contratto di lavoro dipendente sono a part time, mentre l’incidenza dei part time sui maschi occupati è del 9%. Comunque, meglio che nei nostri territori, i dipendenti “stanno bene” in pochi altri luoghi: con 1.500 euro Bolzano rimane la provincia con il primato degli stipendi medi più alti; poi c’è Varese, mentre il terzo posto è di Bologna, con 1.446 euro; quindi Como (1.442 euro) e Milano a chiudere la “top five”. Per la cronaca, la retribuzione media nazionale del personale dipendente è pari a 1.324 euro e sopra la media ci sono tutte province del Nord Italia. Per trovare la prima provincia del Mezzogiorno con gli stipendi medi più elevati bisogna scendere fino al 56° posto dove, con 1.288 euro, c’è Benevento. La provincia con le retribuzioni più basse, invece, è Ragusa, con 1.059 euro. «Varese è una città dalla solida tradizione di rispetto della legalità e qui il lavoro non si sfrutta -ha commentato il vice sindaco di Varese, Daniele Zanzi, all’indomani della diffusione dei dati, dando la sua interpretazione dei motivi dell’alta posizione in classifica della “città giardino”-.
Qui il lavoro lo si paga e nella maggior parte dei casi lo si fa con contratti regolari. Credo che un fattore importante, oltre all’etica del lavoro dei varesini, sia la concorrenza diretta con la vicina Svizzera. I salari devono poter essere competitivi se si vuole evitare che professionisti di talento scelgano di lavorare oltre confine, a fronte di cifre più alte seppur con minori tutele». Certamente vero. Ma, forse, soprattutto per chi il lavoro dipendente ce l’ha già da tempo. Perché, sempre spulciando tra l’indagine su «Le dinamiche del mercato del lavoro nelle province italiane» fatta dall’Osservatorio dei consulenti del lavoro, se si passa alla classifica dei cosiddetti Neet (acronimo inglese di «not (engaged) in education, employment or training», ovvero i 15/29enni che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione), Varese e Milano stanno sì meglio della media italiana, ma sono al di sotto delle 20 miglior province. Detto che i Neet in Italia sono 2,1 milioni (1,1 milioni donne e 1 milione uomini), a fronte di una media italiana del 24% dei Neet sul totale della popolazione di ognuna delle 107 province, Milano sta al 24° posto, con un’incidenza del 15,6%, e Varese si colloca al 36° posto, con una quota del 17,9%.
Per la cronaca, la “top five” delle province vede al primo posto Venezia (incidenza dell’11,2%), seguita da Treviso e Belluno, entrambe all’11,6%, e da Modena e Lecco, all’11,9%. I territori peggiori sono Caltanissetta (44,9%), Crotone (44,7%), Palermo (40,4%), Reggio Calabria (39,6%) e Caserta (39,4%). «Oggi tra i Neet ci stanno i minorenni ma anche i diplomati e i laureati. Chi non studia e cerca lavoro. Chi ha cercato, ha rinunciato e resta in famiglia. Chi una famiglia non ce l’ha, vive un disagio sociale e chi, il disagio, se lo crea. Il mercato del lavoro non aiuta -commentano da Confartigianato Imprese di Varese-. Per loro il futuro è lontano, confuso, irreale: sono una generazione sospesa». E il dato dei Neet, purtroppo, fa il paio con la disoccupazione giovanile (15/24 anni), perché anche qui Varese e Milano non solo stanno al di fuori delle 20 miglior province, ma scivolano verso il centro classifica. A fronte di una media nazionale rappresentata dal 34,7% degli abitanti in provincia di Ferrara alla ricerca di un’occupazione, quasi sempre la prima, infatti, Milano si trova al 38° posto, con il 26,6% e Varese addirittura dieci posizioni più in giù, al 48° posto con il 29,3% dei giovani disoccupati.
Come dire che, qui da noi, più di un ragazzo su quattro non ha lavoro. E non si pensi di essere di fronte ad un male comune a tutta l’Italia, perché la classifica è tutt’altro che corta. Basta guardare alle prime cinque miglior province per vedere che a Venezia il tasso di disoccupazione dei 15/24enni è all’8,3% e a Bolzano al 10,2%; seguono Treviso (12,5%), Bologna (13,3%) e Modena (13,4%). In fondo alla classifica, invece, la situazione ha del drammatico, con Foggia al 64,1%, seguita da Cosenza (62,8%), Isernia (62,1%), Crotone (61,7%) e Napoli (60,5%). Le cose migliorano leggermente per noi se guardiamo al tasso di disoccupazione complessiva, cioè della popolazione con più di 15 anni di età. In questo caso le nostre province stanno poco dopo le prime venti, ma la statistica certo non consola.
A fronte di una media nazionale dell’11,2%, Milano e Varese sono al 21° posto a pari merito, con un’incidenza delle persone in cerca di occupazione del 6,5%. Guardando a migliori e peggiori, in cima alla classifica ci stanno Bolzano (3,1%), Bergamo (4.2%), Venezia (4,8%), Reggio Emilia (4,9%), Bologna e Belluno (appaiate al 5,1%); in basso Crotone (29%), Foggia (25%), Messina (24,8%), Enna (24,7%) e Trapani (24,4%). E se quella tracciata fin qui è la fotografia dell’esistente, va detto che -almeno sulla carta- le prospettive di uno sviluppo positivo esistono, dal momento che Milano e Varese rientrano tra le prime 10 province in quanto a indice sintetico di efficienza e di innovazione del mercato, ovvero il «Labour market efficiency sub-index» sviluppato dalla Commissione Europea per l’occupazione.
In estrema sintesi, si tratta della graduatoria delle 107 province italiane in base al loro livello di competitività occupazionale, derivato dai 5 indicatori che meglio rappresentano la capacità del tessuto economico e sociale di produrre maggiore e migliore occupazione. Gli indicatori sono selezionati attraverso una specifica metodologia statistica che tiene conto del tasso d’occupazione tra i 15 e i 64 anni, del tasso di non Neet tra i 15/29enni, del rapporto tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile (che segnala la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’aumento dell’occupazione complessiva), della quota di occupati che esercitano professioni altamente qualificate nei settori più innovativi e della quota di lavoratori con contratti standard, cioè non “precari”. Stando all’indice sintetico di efficienza e di innovazione del mercato, sono 22 le province italiane che rientrano negli standard europei di indice «molto elevato». E se Milano risulta al quarto posto, più o meno confermando la posizione di classifica rispetto all’anno precedente, Varese si classifica al nono posto, con un incremento di 11 posizioni nel giro di anno, dal momento che nella precedente rilevazione le era stata assegnata la ventesima posizione. Per la cronaca, al primo posto si è confermata Bologna, al secondo Trieste e al terzo Monza e Brianza.
HANNO DETTO
«Altomilanese e Varesotto hanno da sempre dimostrato carattere e una profonda capacità di trovare soluzioni lavorative. Non mi stupisce il fatto che siano tra le provincie con il reddito medio più alto in Italia. Il dato sulla disoccupazione giovanile è però un punto a sfavore di un’area descritta come “ricca” e che come Bcc conosciamo bene. Che Milano sia al 26% e Varese addirittura al 29% sono segnali preoccupanti non solamente della pesante crisi economica che cerchiamo di lasciarci alle spalle, ma anche di percorsi formativi che probabilmente non sono allineati con le reali richieste del mercato. Il tema formazione è fondamentale quando si parla di lavoro: la scuola spesso non basta. Tirocini, specializzazioni, master sono indispensabili per formare quelle professionalità capaci di dare una marcia in più al mondo dell’impresa. Il nostro territorio, come il sistema-paese, per crescere ha bisogno di un’offerta di lavori qualificati con delle retribuzioni adeguate».
«I numeri statistici sono freddi e impersonali. Certo, sono in grado di descriverci una situazione, farci capire un trend sulla base del quale piegare le nostre decisioni da una parte o dall’altra. Ma dietro ai numeri ci sono sempre le persone. E quando leggo che quasi un giovane (o un giovanissimo, visto che viene considerata la fascia di età tra i 15 ed i 29 anni) su cinque non studia, non lavora e non segue percorsi di formazione, sono sconfortato. Si dice che il lavoro nobiliti l’uomo; di sicuro però, il lavoro stanca. Da imprenditore oltre che da amministratore della nostra Bcc constato che il mercato richiede di essere in movimento continuo. Restare al passo con i tempi, mettersi e rimettersi in gioco viene chiesto a chi ha alle spalle anni di lavoro e una professionalità affermata. Ancora di più deve essere chiesto ai giovani. Occorre la voglia di fare, di far fatica, di impegnarsi. Banale? Non così tanto. Le evoluzioni, come testimonia anche il processo che la nostra Bcc sta affrontando per entrare nel Gruppo unico, sono all’ordine del giorno. Per crescere bisogna aver voglia di crescere».
Presidente Comitato esecutivo Bcc Busto Garolfo e Buguggiate«Già Mario Monti nel 2012 aveva usato il termine di “generazione perduta” riferendosi ai trenta-quarantenni di allora. Ma la stessa definizione possiamo adattarla oggi agli under 30 cosiddetti neet (neither in employment nor in education and training), ovvero coloro che non studiano e non lavorano. Semplicemente sono a casa, magari con un diploma o una laurea in tasca e si sono stancati di cercare un’occupazione. Sono forse l’immagine più evidente di una società che sta perdendo le speranze. Davanti ad una mancanza di prospettive lavorative, che diventa assenza di futuro, credo sia importante restituire la fiducia. I valori della cooperazione e del mutualismo, su cui si fondano le Bcc, ci insegnano che il coinvolgimento e la partecipazione sono le molle per tornare ad essere protagonisti. In questa ottica, le politiche di lavoro non devono essere “per” i giovani, ma devono essere politiche della crescita “con” le nuove generazioni. E in un territorio come il nostro troverebbero solo terreno fertile».