Non importa quanto si fattura, ma solo dove si esercita. Il professionista con lo studio in casa propria non paga l’IRAP. Lo sostiene la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 15 maggio 2019 n. 12929, che ha accolto il ricorso di un contribuente, un libero professionista. La persona in questione aveva ricavato nella propria abitazione uno spazio per lo studio professionale. Si era dotato di un’auto e di strumenti informatici necessari per il proprio lavoro e, ritenendo di non eccedere gli standard minimi per l’esercizio della professione. Il ricorrente ha chiesto il rimborso dell’IRAP versata per tre anni dal 2005 al 2007, evidenziando, nel ricorso, come i ricavi e le spese non siano parametri che, da soli, possano evidenziare l’esistenza dell’autonoma organizzazione. L’agenzia delle Entrare alla sua richiesta ha opposto un silenzio-rifiuto. Alla fin il professionista ha deciso di ricorrere in Cassazione, lamentando violazione dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, non potendosi desumere la sussistenza dell’autonoma organizzazione solo in base al fatto che i costi incidono in maniera considerevole sui ricavi.
La V Sezione Civile ha argomentato che il valore assoluto dei compensi e dei costi, ed il loro reciproco rapporto percentuale, «non costituiscono elementi utili per desumere il presupposto impositivo del’autonoma organizzazione di un professionista, atteso che, da un lato, i compensi elevati possono essere sintomo del mero valore ponderale specifico dell’attività esercitata e, dall’altro, le spese consistenti possono derivare da costi strettamente afferenti all’aspetto personale (es. studio professionale, veicolo strumentale…) rappresentando, così, un mero elemento passivo dell’attività professionale, non funzionale allo sviluppo della produttività e non correlato all’implementazione dell’aspetto organizzativo».