Mother Love: quando una comunità decide di guardare la violenza negli occhi

Non uno spettacolo, ma un atto civile. Al Teatro Tirinnanzi, la nostra Bcc, con il patrocinio di iDee, ha portato “Mother Love”, serata intensa e necessaria dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne. Tra dati Istat che raccontano un Paese ferito e testimonianze che parlano al cuore, pubblico, istituzioni e associazioni hanno trasformato l’ascolto in responsabilità, solidarietà e impegno concreto

Il preludio, cioè quel che è accaduto dopo
Fuori dal teatro qualcuno prende i volantini della Casa delle Donne “per conoscenza”, qualcun altro chiede a una volontaria come si possono sostenere le associazioni. Una coppia giovane parla fitto, sottovoce: forse stanno parlando di qualcuno, forse di loro stessi. Non lo sapremo mai. Ma è così che la sensibilizzazione diventa seme.
Due ore prima
La platea resta in silenzio quando le luci si abbassano. Non è un silenzio di attesa: è un silenzio di rispetto.
Fuori, le vetrine di Legnano sono già illuminate per Natale; dentro, nel Teatro Tirinnanzi, c’è un pubblico che non vuole divertirsi, ma capire. Non è una sera come le altre. È la sera in cui un’intera comunità decide di fermarsi davanti a una ferita profonda del Paese: la violenza contro le donne.
Le statistiche non hanno voce, ma gridano. In Italia oggi quasi una donna su tre (31,9%) ha subito almeno una violenza fisica o sessuale nella vita. Dietro quel numero ci sono 6 milioni e 400mila volti: madri, figlie, studentesse, colleghe, amiche. Una su cinque (23,4%) ha conosciuto la violenza sessuale; il 5,7% ha subito o tentato uno stupro.
E non è il “mostro sconosciuto” dell’ombra: il 63,8% degli stupri è commesso dal partner. Il luogo del pericolo non è il vicolo buio: troppo spesso è casa, il luogo che dovrebbe proteggere.
Lo racconta l’ultima indagine Istat “Sicurezza delle donne”, pubblicata il 21 novembre.
È un lavoro immenso, condotto tra marzo e agosto 2025 su 17.500 donne italiane. Migliaia di voci raccolte, comprese quelle che non denunciano, quelle che parlano solo nel telefono di un’intervistatrice, da una stanza lontana.
E in quell’ombra emerge una verità durissima: solo il 10,5% denuncia. Il resto resta sommerso: paura, vergogna, isolamento, dipendenza economica, ricatto emotivo, figli nel mezzo.
E poi c’è un dato che ferisce più di tutti: la violenza è più feroce dove c’è relazione. Ex partner responsabili nel 59,1% degli stupri. Ex che, in un caso su due, sono stati lasciati proprio a causa della violenza. Ex che colpiscono quando la relazione è finita, quando la donna tenta di riprendere la sua vita, quando “non è più tua”.
Questi numeri non bastano a raccontare la violenza: la violenza ha una grammatica fatta di silenzi, di lividi, di minacce. Una grammatica che lo spettacolo “Mother Love” ha tentato di tradurre in emozione, in empatia, in coscienza collettiva.
E qui arriviamo al punto: c’è una differenza tra sapere e sentire. I numeri si leggono, ma non sempre smuovono.
L’arte -a volte- sì. È per questo che la nostra Bcc ha deciso di non limitarsi a parlare del problema, ma di “esserne parte attiva”, come ha detto il presidente Roberto Scazzosi in apertura. Con un gesto concreto: organizzare “Mother Love” nel cuore della città, in una serata aperta, gratuita, costruita per ascoltare. E non solo per assistere.
Non un evento mondano, non una parentesi culturale: un atto di responsabilità civica.

La voce di Scazzosi non è quella formale dei discorsi istituzionali. È bassa, quasi trattenuta, come se ogni parola fosse un peso che va scelto con cura. «Siamo qui per fermarci, ascoltare, capire. La violenza non è una notizia: è una ferita. E una comunità degna di questo nome deve proteggere, accompagnare, restituire dignità. Quando si parla di questi fatti non dobbiamo pensare solo all’omicidio. Ci sono donne obbligate a stare zitte per paura di perdere la casa, un figlio, il lavoro. In questi casi il danno è doppio: si subisce la violenza e, dall’altra parte, bisogna stare in silenzio. Se siamo così in tanti, ognuno nel suo ruolo, e se ognuno ha qualcosa da dire o da fare per aiutarci a eliminare questa piaga, pensiamo a queste due parole: collaborare per crescere. Se tutti insieme mettiamo un pezzettino del nostro impegno, forse un domani questo fenomeno sarà diminuito o eliminato».
Non innalza la voce, ma la platea ascolta. Perché in quelle parole c’è una promessa: non limitarsi alla solidarietà emotiva, ma costruire un percorso, sostenere chi opera ogni giorno nella prevenzione, nell’accoglienza, nella cura dell’anima e del corpo.
Poi le luci cambiano, e il teatro diventa una confessione condivisa.
“Mother Love” non è uno spettacolo nel senso tradizionale del termine: è un viaggio. La voce narrante trascina il pubblico dentro una casa che potrebbe essere qualsiasi casa. Una cucina, una camera da letto, un bagno. Luoghi familiari che diventano trappole, gabbie invisibili. Le scene sono essenziali, quasi spoglie; il testo è tagliente, mai indulgente, mai estetizzante. È un teatro che non vuole compiacere: vuole far vedere.
Sul palco le interpreti -donne vere, voci vere- non “recitano”. Portano. Trasportano.
Raccontano la paura che non dorme, il rumore di una chiave nel portone che può diventare sentenza, la telefonata ad un’amica che “non è niente”, l’abitudine ad abbassare lo sguardo perché “lui si arrabbia”.
La violenza, quella autentica, non è fatta di grida cinematografiche: è fatta di piccoli gesti che spezzano la volontà. Controllo, umiliazione, isolamento, condizionamento. Ed è lì che lo spettacolo colpisce: mostra la violenza come processo, non come incidente.
A tratti il pubblico si irrigidisce. Qualcuno guarda il pavimento. Qualcuno stringe le mani. Sono le pause silenziose che parlano di più: nessuno applaude, nessuno tossisce. Come se ogni spettatore avesse paura di rompere una verità che sta venendo a galla.
A dare spessore alla serata sono anche gli interventi che accompagnano lo spettacolo. Sul palco, al termine, arrivano le parole di chi non si ferma al racconto: Daniela Bossi, presidente di WIP – Associazione Culturale Donne; Rossella Rossini, della Casa delle Donne di Gallarate; Silvia Valsecchi per Artemisia; la psicoterapeuta Stefania Guidi che lavora quotidianamente con le vittime, spesso quando non hanno più voce, quando sono state ridotte a sopravvivere.
Ognuna di loro porta un pezzo di realtà. Non statistiche, non slogan: storie. Storie di donne che bussano a uno sportello di aiuto con i vestiti ancora bagnati da un pianto che dura mesi. Storie di madri che fanno la valigia di notte perché la violenza non attende il giorno. Storie di bambine che imparano troppo presto che l’amore non fa male, e che se fa male non è amore.

Lo spettacolo si chiama “Mother Love”, ma sul palco non c’è idealizzazione della maternità. La “madre”, qui, è la donna come principio di umanità: generatrice di relazioni, di cura, di mondi possibili. E proprio per questo, quando viene ferita, l’intera comunità vacilla.
Non c’è retorica: c’è la consapevolezza che la violenza sulle donne non è un “tema femminile”, ma un problema strutturale dell’intera società.
L’intervento del Comune di Legnano, con la presenza del sindaco Lorenzo Radice e dell’assessora al Welfare, conferma che il tema non è “privato”. La politica ascolta, osserva, assume impegni. Radice, dal palco, parla di responsabilità delle istituzioni e del dovere di non lasciare sole le vittime, di non pensare che “non ci riguardi”.
E l’assessora aggiunge un concetto che resta nell’aria come una richiesta semplice e radicale: prevenzione culturale. Non assistenzialismo, non pietà: educazione, rete, continuità.
In platea ci sono donne che annuiscono, uomini che non distolgono lo sguardo, financo giovani che ascoltano senza scrollare lo smartphone. Quando le interpreti chiudono, nessuno applaude subito. Serve qualche secondo per tornare all’aria del mondo. Una serata così non si misura solo dai presenti. Si misura da ciò che lascia.
Il presidente Scazzosi, nel saluto finale, non prima di aver fatto un ringraziamento particolare, “di cuore”, alle donne e agli uomini della banca -«Senza di loro non saremmo stati qui stasera. Si impegnano non solo per questa serata, ma in tante diverse occasioni»-. non usa il linguaggio dei ringraziamenti rituali. Dice una cosa semplice: «Abbiamo la responsabilità di essere comunità, non spettatori».
È una frase che potrebbe stare in un manifesto o in una lettera privata. E che fa il pari col cuore dei discorsi di Daniela Cazzaniga, responsabile dell’area territoriale della nostra Bcc che ha condotto la serata: «La violenza sulle donne non è una questione privata. La violenza sulle donne è una ferita che sanguina nel cuore della nostra società ed è una ferita che chiama ciascuno di noi, come cittadino e come essere umano. Essere banca del territorio vuol dire essere vicini a chi su questo territorio vive e lavora, ma per noi vuol dire anche provare tutti i giorni a portare valori importanti: rispetto, solidarietà, uguaglianza. È da questo pensiero che è nata in noi la voglia di realizzare questa serata».
E forse è questo il punto: la violenza sulle donne non si vince a colpi di tweet indignati, né con una giornata di calendario. Si vince con l’impegno quotidiano, con il lavoro di chi accoglie, con la formazione nelle scuole, con gli uomini che scelgono di non essere complici del silenzio.
L’Italia ha una percezione spesso distorta del fenomeno.
Quando si parla di violenza si pensa agli omicidi, alla cronaca nera. Ma il vero problema, quello che l’Istat fotografa con spietata nitidezza, è l’invisibile. Le minacce, gli insulti, lo stalking, il controllo dell’accesso al denaro, il divieto di vedere amici e genitori. Il 17,9% delle donne vive violenza psicologica dentro la coppia. Il 6,6% subisce violenza economica. Sono ferite senza lividi. E spesso sono l’anticamera delle botte.
L’Italia ha numeri che si sono stabilizzati negli ultimi anni, ma questo non è un bene: significa che la violenza non cresce. Semplicemente non diminuisce. La consapevolezza, paradossalmente, cresce: sempre più donne riconoscono che ciò che subiscono è un reato, sempre più si rivolgono ai centri antiviolenza. Ma il muro della denuncia rimane altissimo.
E allora serate come “Mother Love” diventano necessarie. Non risolvono, ma aprono varchi. Non salvano, ma accompagnano. Non cambiano tutto, ma -per alcune- cambiano qualcosa.
All’uscita dal teatro c’è un clima strano, quasi sospeso. Non c’è leggerezza, ma nemmeno disperazione. C’è dignità. È come se ognuno, uscendo, portasse con sé un pezzo di responsabilità. Ed è forse questa la vera vittoria: trasformare un pubblico in una comunità consapevole.
«La violenza contro le donne non è un destino culturale: è una scelta sociale -conclude il presidente Scazzosi-. Si può combattere. Si deve combattere. Con leggi, certo. Con strutture, con investimenti. Ma anche con serate come questa, dove la bellezza dell’arte non consola: educa. Dove un teatro non intrattiene: cura. Dove una banca non finanzia soltanto: protegge».
Mother Love non è finita quando si sono riaccese le luci. È finita nelle conversazioni fuori dal teatro, nelle domande dei figli alle madri, negli sguardi. E forse, come nelle vigne d’inverno, l’importante non è ciò che si vede ora, ma ciò che germoglierà. Perché il cambiamento, come la cura, non fa rumore: cresce silenzioso, ma cambia il mondo.

Dal dolore alla dignità

La serata è stata fortissimamente voluta dai dipendenti della Bcc, tanto che direzione e consiglio di amministrazione l’hanno immediatamente appoggiata. «Abbiamo infatti previsto un contributo aggiuntivo per E.va ODV (destinataria del ricavato), stanziando un “gettone” economico per ogni dipendente presente in sala -ha detto dal palco il nostro direttore generale, Roberto Solbiati- trasformando così la partecipazione del personale in un gesto concreto. E questo perché uno dei principi ispiratori della nostra banca è quotidianamente lavorare nell’interesse e per il bene del nostro territorio. Siamo fermamente convinti che quella di oggi sia stata una straordinaria opportunità per poter, nel nostro piccolo, collaborare con chi ha scelto quotidianamente di operare per il bene».
Tornando a “Mother Love”, sul palco si è vista la potenza della danza della Scuola “Danza e Danza” di Pregnana Milanese, ideata dalla direttrice Rossana Palmitessa, che si è intrecciata con la testimonianza di Manuela Carnini, in arte Fridami, intervistata dal giornalista Marco Linari. La Carnini -ex olimpionica del nuoto sincronizzato ad Atlanta 1996, oggi medico chirurgo vascolare e artista- ha raccontato la propria storia. Il suo episodio più traumatico è avvenuto proprio il 25 novembre 2018, senza che lei sapesse che quella fosse la Giornata contro la violenza sulle donne. Da vittima sopravvissuta, che durante un’aggressione «mi sono finta quasi morta» pur di fermare la violenza, è diventata artista trasformando il dolore in opere: la Earth Pain Collection, che rappresenta le fasi del trauma «dal buco nell’anima alla guarigione».
L’abito indossato sul palco, “Il cuore a memoria”, raccontava un dolore che non si cancella, ma che non deve essere dimenticato. Parlando del caso Cecchettin, la Carnini ha spiegato di aver realizzato un’opera la notte della sentenza che escludeva la crudeltà: «Ho provato fisicamente a imprimere 75 coltellate su una tela con un coltello da cucina. È stato dolorosissimo e faticoso, non ci ho messo un minuto. Immaginiamo un uomo che si accanisce contro una donna… Se ce ne sono state 75, vuol dire che alcune non erano mortali. Io, da medico e da artista, non riesco a non vedere la crudeltà in tutto questo».
La sua testimonianza ha affrontato il tema degli “insospettabili” — «anche il mio ex marito è un medico» — e quello dell’isolamento. «All’inizio mi vergognavo, non capivo cosa mi stesse succedendo. Non volevo preoccupare nessuno: avevo i genitori malati, i fratelli lontani, ero appena sposata. Dicevo: magari ce la faccio, magari con l’amore lo salvo… Ma ognuno si salva da solo». Al centro del racconto anche i figli, testimoni diretti della violenza: «L’episodio più catastrofico è avvenuto davanti ai miei bambini. Mio figlio di tre anni, scendendo dal seggiolone, ha provato a difendermi. Mia figlia è caduta dalle mie braccia, con un trauma cranico. Lì ho detto: basta».
Carnini ha poi parlato dei segnali che una donna deve imparare a riconoscere: lo stalking anche da parte di persone non “ufficialmente” partner; il controllo ossessivo, la geolocalizzazione, il “se ti vesti così non esci”; il divieto di vedere le amiche. «Tutte cose che non esistono: l’amore è libertà», ha ribadito con forza.

HANNO DETTO:

Mauro Colombo
vice presidente vicario

«La violenza contro le donne non è solo un’emergenza sociale: è una ferita aperta nelle nostre comunità. Ogni episodio racconta il fallimento collettivo nel proteggere chi dovrebbe poter vivere senza paura. Come banca di territorio sentiamo il dovere di sostenere chi lavora ogni giorno per prevenire, educare e accompagnare. La dignità non è negoziabile: difenderla è parte della nostra responsabilità cooperativa»..

Giuseppe Barni
presidente del comitato esecutivo

«Contrastare la violenza sulle donne significa creare le condizioni perché ognuna possa sentirsi libera, protetta, accolta. E questo richiede reti, professionalità e comunità coraggiose. Noi crediamo nel valore dei percorsi che danno nuova possibilità a chi ha vissuto il dolore più ingiusto. Essere banca cooperativa oggi significa anche questo: sostenere chi restituisce speranza e rimettere al centro il rispetto, che è il primo bene comune».

Diego Trogher
vice presidente

«Quando una donna subisce violenza, a essere colpita è l’intera comunità. Per questo il nostro impegno non può limitarsi alla solidarietà simbolica: deve diventare azione, ascolto, presenza. Le Bcc sono nate per stare accanto alle persone e mai come su questo tema l’ascolto fa la differenza. Dobbiamo costruire territori capaci di riconoscere i segnali, di rompere il silenzio, di offrire vie d’uscita reali. È un dovere che ci riguarda tutti».

0 replies on “Mother Love: quando una comunità decide di guardare la violenza negli occhi”