Giovani a lezione di buona finanza

La BCC è salita in cattedra ad #ALICamp per spiegare a studenti e startupper il concetto di fiducia come fondamento del rapporto da stabilire fra banca e aziende
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Egidio Alagia

Lezioni di finanza se ne fanno tante, di finanza che fa bene un po’ meno ed è per questo che fa notizia l’iniziativa del Gruppo Giovani Industriali di Confindustria Altomilanese e della BCC. Lunedì 12 settembre, all’interno del programma #ALICamp, il percorso formativo e motivazionale pensato per figli d’imprenditori e startupper, in cattedra sono saliti il direttore generale della BCC di Busto Garolfo e Buguggiate Luca Barni e il responsabile dell’area Mercato Massimo Tufano. Di fronte a loro quindici giovani, alcuni ancora studenti, altri ai primi passi in azienda, altri che hanno lanciato da poco una start up. «#ALICamp si propone come campo d’addestramento all’imprenditorialità –spiega il presidente dei Giovani industriali di CAM Egidio Alagia (nella foto)–; agli studenti presentiamo aspetti del fare impresa che, spesso, non sono trattati nei corsi di studio e che si sperimentano soltanto sul campo. Coinvolgendo lo staff dell’Associazione e con le testimonianze dirette di esperti e imprenditori ‘senior’, abbiamo offerto ai ragazzi un quadro completo di cosa significhi essere imprenditori e di cosa un imprenditore deve occuparsi nella sua attività; la finanza, che è fondamentale, è uno di questi. Spesso è un aspetto demandato ad altri, perché questa materia o appassiona o respinge, ma io sono convinto che ogni imprenditore, oggi più che mai, debba saperne. Abbiamo scelto di trattare l’argomento finanza con la BCC perché è banca del territorio e perché, cifre alla mano, le BCC sono tra le banche che a livello italiano sostengono di più le startup». A introdurre l’argomento il direttore Barni, che ha posto i paletti della questione: la finanza che fa bene è quella che guarda all’economia reale e quella che con gli attori dell’economia reale, in questo caso le imprese, lavora carte sul tavolo, con il massimo della trasparenza. «La finanza che fa bene è quella che si regge sulla fiducia –ha chiarito il responsabile area Mercato Tufano–; una volta bastava una stretta di mano a suggellare un accordo fra direttore di banca e imprenditore. Oggi ci sono pigne di moduli, ma servono a poco questi aspetti formali in mancanza di una fiducia di fondo. Se la fiducia manca, nei rapporti banca-impresa come in quelli personali, bisognerà impiegare molta più energia, sprecare più risorse, il che è antieconomico. La fiducia, invece, è un catalizzatore dei processi; diventa un fattore di competitività. E non è un caso che i Paesi che ispirano maggior fiducia siano quelli che attirano più investimenti». È stata una lezione di concetti più che di cifre quella di Tufano con slide strutturate in parallelo: imprese da una parte, banca dall’altra. Questo a sottolineare una relazione da vasi comunicanti; le difficoltà delle prime hanno effetto sulle seconde. «Fiducia significa scambiarsi le prospettive con chiarezza –ha proseguito Tufano–; si possono avere visioni divergenti, ma lo scopo deve essere unico, nella logica di una partnership. Se un’azienda è in difficoltà e chiede il concordato senza esporre il problema alla banca il rapporto fiduciario viene meno». Concetti recepiti dall’aula.

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Federico Nieddu, Lucrezia Camera Magni e Samuele Vago

Per Samuele Vago, 27 anni, della Vagotech e fondatore con i fratelli di una start up, «quello della fiducia è un tema di cui avevo sempre sentito parlare e di cui adesso mi è più chiara l’importanza: fra banca e impresa deve essere una scommessa al 50%, deve esistere reciprocità nei rapporti. Penso sia il momento; da parte delle banche si è visto uno sforzo sulla via della semplificazione». Lucrezia Camera Magni, 23 anni, studentessa di Economia e Commercio, ha affrontato per la prima volta il rapporto banca-imprese in presa diretta: «Quello che sapevo sull’argomento lo avevo sentito a lezione e non derivava da un’esperienza personale. Credevo di assistere a una lezione, invece il discorso sulla fiducia è andato oltre numeri e formule. L’idea di banca che ho sempre avuto nasce da quanto sentito in famiglia, che la considera una risorsa ». Federico Nieddu, entrato da anni nell’azienda di famiglia, la Teknisol, ha vissuto in prima persona le difficoltà della crisi in un settore, l’edilizia, alle strette da anni. «L’idea di banca che in azienda si aveva prima di conoscere la crisi era diversa da quella con cui siamo usciti dai momenti più difficili. Quando il mercato tirava non c’erano problemi con le banche; ci portavano in palmo di mano. Alle prime difficoltà le banche hanno chiuso i rubinetti. Il risultato è che siamo stati noi a dover fare da banca ai fornitori. Da questa lezione sono uscito con più fiducia: le basi su cui impostare il rapporto bancaimpresa mi hanno convinto». Coro di consensi, quindi, a quanto sentito nella lezione: sono i giovani che si accingono a fare impresa i più ricettivi verso il messaggio di una vera partnership fra banche e imprese? «Esiste una consapevolezza forte sulla necessità di un cambio di paradigmi, anche da parte delle imprese –risponde Alagia–: dobbiamo essere convinti che si gioca insieme la stessa partita e che gli interessi non sono diversi o, addirittura, in contrasto. In questo senso non c’è dubbio che le imprese debbano imparare a rapportarsi alle banche, a raccontarsi per come sono e a non piangersi addosso». Rispetto ai tempi della stretta di mano fra i rappresentanti di banca e impresa ci sono più criteri da ponderare; sono dissuasori di fiducia? «Che qualcosa in materia stesse cambiando lo avevo intuito all’università: poi, dagli accordi di Basilea (nell’articolo che segue la storia degli accordi), tutto si è complicato. Non discuto che le banche valutino requisiti come patrimonializzazione e business plan, ma se a una banca si presenta una start up con un’idea innovativa, questi parametri a cosa servono?». A poco nulla; serve, appunto, fiducia.

Gli accordi di Basilea

Rappresentano le linee guida riguardanti i requisiti patrimoniali e prudenziali degli istituti di credito, concordati a livello internazionale dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (CB). Dalla sua istituzione nel 1974, il CB ha raggiunto 3 principali accordi attinenti ai requisiti patrimoniali delle banche operanti a livello internazionale, denominati rispettivamente Basilea I, II e III.

Basilea I. Stipulato nel 1988, fissava un requisito minimo di capitale unico per le banche, in funzione del volume e delle caratteristiche del loro attivo. L’accordo prevedeva che le banche accumulassero capitale (in forma di azioni ordinarie, fondi propri e altre forme di raccolta privilegiata) nella misura dell’8% delle attività bancarie impiegate, ponderate per classi di rischio. Applicato con successo da più di 100 Paesi, negli anni 1990 il primo accordo di Basilea ha iniziato a rivelarsi inadeguato ad assicurare la stabilità di un settore bancario la cui dimensione, sofisticatezza e interconnessione crescevano in modo molto rapido nel sistema finanziario globalizzato. Per tenere conto di questi sviluppi, nel 2001, il CB ha pubblicato in un documento di consultazione una nuova proposta, denominata Basilea II.

Basilea IIGli obiettivi fondamentali del nuovo accordo erano 3: superare la rigidità costituita dal fatto che nel regime B. I la ponderazione dell’attivo non variava nel tempo in funzione delle caratteristiche di rischio del debitore; aggiungere alla considerazione dei rischi di credito, già insita in Basilea I, e a quella dei rischi di mercato integrata con emendamento nell’accordo originale, anche quella dei rischi operativi; prevedere che le banche potessero, per valutare la rischiosità dell’attivo e il suo evolversi nel tempo, utilizzare fonti di informazione alternative, fra cui le valutazioni delle agenzie di rating (➔) o anche modelli di valutazione del rischio elaborati internamente. Infine, il nuovo accordo affiancava al cosiddetto primo pilastro (i requisiti patrimoniali in senso stretto) ulteriori strumenti regolamentari e di supervisione da parte delle autorità di vigilianza e provvedimenti per garantire la trasparenza e l’autodisciplina del mercato, classificati rispettivamente come secondo e terzo pilastro. Con queste caratteristiche e dopo estese consultazioni con l’industria bancaria, l’accordo di Basilea II è diventato operativo nel 2006, con tempi di attuazione diversi a seconda dei Paesi.

La crisi finanziaria iniziata nel 2007, tuttavia, ha rivelato che alcune delle caratteristiche dell’accordo avevano consentito, se non favorito, la formazione di rischi eccessivi nel sistema bancario. La diagnosi del CB e del Financial Stability Board (FSB) ha individuato 3 elementi di debolezza principali: la cosiddetta prociclicità dei coefficienti di capitale (cioè il fatto che l’aumento del rischio in fasi macroeconomiche recessive tende, attraverso l’adeguamento del capitale, a determinare una restrizione del credito aggregato, accentuando la recessione); i conflitti di interesse derivanti sia dall’uso dei modelli interni di valutazione del rischio sia dal rapporto di stretta collaborazione e clientela fra le agenzie di rating e le banche; l’insorgere di vaste aree di attività bancaria o parabancaria fuori bilancio e, come tali, non regolate e non soggette a requisiti prudenziali.

Basilea III. A seguito delle critiche mosse all’accordo di Basilea II, il CB ha iniziato l’elaborazione di nuove linee guida, Basilea III, pubblicando le prime proposte nel 2009. Le principali innovazioni riguardavano: l’aumento dei requisiti prudenziali, ottenuto elevando i coefficienti minimi e adottando una definizione di capitale più stringente; la costituzione di un margine anticiclico, per evitare l’effetto di amplificazione ciclica a cui si è fatto riferimento; l’introduzione di criteri di indebitamento (leverage; ➔ leva) e liquidità, in aggiunta a quelli sul capitale. L’accordo è stato completato dall’imposizione di requisiti di capitale addizionali per le banche con rilevanza sistemica, da una più stretta regolamentazione delle agenzie di rating e da disposizioni per evitare l’insorgere di attività bancarie ombra (shadow banking), non riportate in bilancio. Dopo elaborazioni e affinamenti sotto la supervisione del FSB, l’accordo di B. III è stato approvato dal Gruppo dei 20 (➔ G 20) nel summit di Seoul del novembre 2010.

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