Donne e mamme: cosa possono fare aziende ed organizzazioni per aiutarle

Convegno Natalità e Lavoro
Il Credito Cooperativo si pone come un operatore proattivo nella ricerca di soluzioni in grado di incidere sul cambiamento

Nel giorno della festa della mamma vogliamo fare il punto sulla situazione in Italia: perché le donne fanno sempre meno figli e cosa potrebbero fare aziende e organizzazioni per invertire la rotta?

“Stiamo attraversando un punto critico perché nel 2023 abbiamo nuovamente toccato l’1,20 come tasso di fecondità, un dato sostanzialmente identico al minimo storico di 1,19 registrato nel 1995”, ha spiegato Claudia Bernardo, coordinatrice territoriale di IDEE per la Campania, responsabile marketing di BCC Campania Centro, dottoressa di ricerca in marketing e comunicazione, nonché blogger e pubblicista, durante il convegno Natalità e lavoro. La sfida dei territori, promosso da IDEE, le donne del Credito Cooperativo.

“Andando a contestualizzare, quel tasso di 1,19 derivava da un periodo, quello degli anni ’80, caratterizzato da fenomeni rilevanti come l’aumento dei divorzi e delle separazioni. Si è avviato il tema della programmazione delle nascite grazie alla diffusione degli anticoncezionali, e le famiglie hanno iniziato a comprendere che potevano pianificare la genitorialità, posticipandola nel tempo. Tuttavia, gli anni ’80 hanno visto anche un forte sviluppo dei movimenti per l’emancipazione femminile: una rivoluzione sociale che ha contribuito a quel dato di 1,19.

Oggi, però, è sconfortante constatare che nel 2023 quel numero si sia ripresentato. Il tasso di fecondità non varia significativamente tra Nord, Centro e Sud Italia, sebbene si registri una maggiore flessione al Centro. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che il nostro Paese è il fanalino di coda in Europa per numero di nascite rispetto all’indicatore del tasso di fecondità.

Cosa possono fare le aziende e le organizzazioni? Possono sicuramente partire dall’implementazione di meccanismi di flessibilità family friendly, già illustrati nella precedente slide, ma possono anche scegliere di agire su uno dei grandi temi legati allo sviluppo della genitorialità, selezionando azioni concrete.

Alcuni esempi possono includere:

  • La rimozione degli ostacoli nella progressione di carriera delle donne;
  • La verifica dei carichi di lavoro, degli inquadramenti e dei livelli retributivi;
  • Maggiore trasparenza nella gestione dei talenti;
  • L’introduzione di iniziative di formazione finalizzate all’abbattimento degli stereotipi di genere e alla sensibilizzazione su temi come la fertilità e i meccanismi di flessibilità disponibili, sia dal punto di vista normativo che aziendale.

L’articolo 2 dello statuto tipo del credito cooperativo impone, di fatto, un marchio di fabbrica al credito cooperativo stesso. Le banche appartenenti al movimento cooperativo sono necessariamente investite della responsabilità di favorire la crescita sostenibile dei territori. Sostenibile è ogni azione che garantisce il diritto proprio e altrui di poter soddisfare anche in futuro i propri bisogni. L’articolo 2 dello statuto ci richiama proprio a questo principio. Su questa base, rispetto ai temi della natalità e ai fattori che determinano il decremento delle nascite, il credito cooperativo deve compiere un passo avanti, posizionandosi come un operatore proattivo nella ricerca di soluzioni in grado di incidere sul cambiamento. Il credito cooperativo è infatti rappresentato da soggetti che non sono solo operatori bancari, ma svolgono anche un ruolo sociale. Essi operano in un sistema vivo di componenti, un ecosistema che rende evidente la grande forza del credito cooperativo, sia nell’ambito di un microcosmo, sia nel contesto più ampio del macrocosmo in cui è immerso.

Le banche cooperative, infatti, interagiscono con una rete di attori quali fondazioni, associazioni mutualistiche, gruppi di giovani soci e consulte dei soci. Questi soggetti non solo avanzano istanze, ma propongono anche soluzioni e innovazioni sul tema della genitorialità e del suo sostegno. In questo microcosmo, le sinergie possono e devono svilupparsi anche rispetto agli attori del macrocosmo, come FederCasse, le federazioni, il Capogruppo, la Cassa Mutua Nazionale e il Fondo Pensione.

Avviandoci alle conclusioni, è evidente che la risalita delle nascite in Italia passa attraverso l’adozione di meccanismi di flessibilità in grado di equilibrare i tempi di vita e di lavoro delle persone, coinvolgendo sia le donne che gli uomini. La genitorialità deve tornare a essere una scelta motivante, capace di orientare il senso delle cose e di rafforzare il valore comune della dimensione generativa.

Oggi si parla molto di innovazione, ma senza nuove nascite non potrà mai esserci né innovazione né sviluppo sostenibile. Parallelamente, è necessario rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di essere riconosciute nella loro essenza, al di là del loro ruolo di madri, mogli e caregiver. È quindi fondamentale recuperare un senso pratico nell’organizzazione del lavoro, promuovendo la genitorialità in un’ottica di sviluppo e riorientamento.

Negli ultimi quindici anni le nascite si sono ridotte di un terzo e si è verificato un altro fenomeno: il tasso di fecondità delle donne straniere si è abbassato al di sotto del valore di 2, ovvero la soglia di sostituzione, il livello minimo affinché la popolazione si rinnovi. Se in passato si contava sulla maggiore natalità delle donne straniere, oggi dobbiamo prendere atto che anche loro si stanno progressivamente avvicinando al tasso di fecondità delle donne italiane.

Quali sono i fattori che incidono sulla natalità? Sono molteplici e complessi. Nella ricerca li abbiamo analizzati in dettaglio, ma possiamo fornire alcuni spunti significativi:

  • Fattori individuali: in Italia, il 70% dei giovani tra i 18 e i 35 anni vive ancora con la famiglia di origine, mentre la media europea è del 30%. Questo dato non è solo indicativo di un ritardo nell’ottenere l’autonomia abitativa o economica, ma riflette anche fattori socioculturali radicati.

  • Fattori biologici: siamo consapevoli dell’importanza della fertilità? Dopo i 35 anni, le donne hanno il 50% di probabilità in meno di concepire naturalmente e anche la fertilità maschile subisce un declino con l’età.

  • Fattori congiunturali: crisi pandemiche, crisi finanziarie, eventi climatici estremi creano sfiducia nel futuro, scoraggiando la scelta di avere figli.

  • Fattori socioculturali: un’indagine condotta ogni cinque anni su 100 Paesi, tra cui l’Italia, ha rilevato un preoccupante primato italiano sugli stereotipi di genere. Alla domanda “I bambini soffrono se la mamma lavora”, il 54,1% degli intervistati italiani ha risposto in modo affermativo, mentre la media europea è del 30%. Alla domanda “Se c’è poco lavoro, è giusto dare la priorità agli uomini”, il 25,4% degli italiani si è dichiarato d’accordo, contro l’11,4% della media europea.

In questo contesto, viene quasi spontaneo attribuire alle donne la responsabilità della bassa natalità. Ma è davvero così? I dati dicono il contrario. L’Italia non è solo agli ultimi posti in Europa per il tasso di fecondità, ma anche per l’occupazione femminile: lavora poco più di una donna su due nella fascia di età 15-64 anni, mentre la media europea è superiore di oltre 10 punti percentuali e in molti Paesi supera il 70%.

Se fosse vero che il lavoro femminile incide negativamente sulle nascite, allora l’Italia dovrebbe essere il Paese con il più alto numero di nati, vista la scarsa occupazione femminile. Invece, è esattamente il contrario. L’unico dato certo è che siamo l’unico Paese in Europa con tassi minimi sia di occupazione femminile che di fecondità. E questo è un problema che non può più essere ignorato.

Ma in realtà, il vero problema in Italia sul tema dell’occupazione è che le donne si trovano spesso ai margini del mercato del lavoro perché vengono chiamate sempre più spesso a svolgere il ruolo di caregiver. Sono il vero ammortizzatore sociale del nostro Paese quando si tratta di meccanismi di cura e, molto spesso, l’abbandono del lavoro è determinato dal fatto che esiste un notevole gender pay gap.

Questa slide riproduce, sulla base dei dati INPS, la distribuzione della retribuzione media annua per i lavoratori, includendo chiaramente anche le banche. Si osserva come, in tutte le fasce d’età, il divario retributivo sia significativo e come la media complessiva si attesti intorno agli 8.000 euro annui in meno per le donne rispetto agli uomini.

Ridurre il gender gap, secondo le statistiche, porterebbe a un aumento del PIL pro capite in Italia fino al 12% entro il 2050. Questo dato emerge da una rilevazione dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, rielaborata dall’Osservatorio For Manager. È un dato di fatto: rinunciamo a un capitale umano importantissimo, riducendo al contempo la produttività del nostro Paese, relegando le donne ai margini. Il gender pay gap è un elemento su cui è fondamentale lavorare per risolvere il problema.

Ma che relazione c’è tra lavoro e natalità?

Nell’ambito della ricerca, sono state analizzate le scelte di chi abbandona il lavoro, sia in termini quantitativi sia per quanto riguarda le motivazioni alla base di questa decisione. Secondo i dati INPS pubblicati a settembre 2024, una donna su cinque in Italia esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre. Il dato del 18% mostrato in questa slide conferma che, nella maggior parte dei casi, sono le donne e non gli uomini a lasciare il lavoro nel momento in cui diventano genitori.

Analizzando le convalide delle dimissioni, emerge che nel 50% dei casi i soggetti che decidono di lasciare il lavoro sono donne con figli nella fascia d’età tra 0 e 1 anno. Questo indica chiaramente un momento critico nella vita genitoriale: se le famiglie riescono ad affrontare in modo adeguato la nascita del primo figlio, si superano una serie di ostacoli che potrebbero favorire anche la nascita di figli successivi.

Guardando le motivazioni dell’inattività dichiarate dagli inattivi (persone che potrebbero lavorare ma scelgono di non farlo), emerge che il tasso di inattività femminile in Italia è il più alto d’Europa: 31% contro una media europea del 18,2%. Inoltre, il motivo principale dichiarato dagli inattivi riguarda gli impegni familiari.

Analizzando le richieste di recesso per genere e le convalide di dimissioni, si evidenzia che nel 50% dei casi la motivazione principale è l’impossibilità di conciliare il lavoro con la cura del bambino, sia per ragioni legate ai servizi di assistenza, sia per difficoltà con l’azienda di appartenenza. Approfondendo ulteriormente, emerge che le principali problematiche relative ai servizi di cura sono: l’assenza di parenti di supporto e l’elevato costo dell’assistenza ai neonati.

L’assenza di parenti di supporto, la motivazione più frequentemente citata, riflette un modello tipicamente italiano, basato sull’affidamento della cura dei bambini a nonni e nonne, un modello che in altri Paesi europei è pressoché inesistente.

Le ragioni legate alle organizzazioni, invece, includono condizioni di lavoro particolarmente gravose o difficilmente conciliabili con la vita privata. Inoltre, tra le motivazioni principali compare anche la distanza tra casa e luogo di lavoro, che influisce sulla decisione di dimettersi.

Da dove bisogna ripartire?

È necessario riequilibrare il rapporto tra vita privata e lavorativa. Questo porterebbe almeno due benefici principali:

  1. La possibilità di ridurre il calo della forza lavoro, permettendo alle donne di rientrare nel mercato lavorativo. Abbiamo già visto come la riduzione del gender gap possa avere un impatto positivo sul PIL entro il 2050. Far lavorare più donne significa aumentare la produttività del Paese, perché rappresentano una risorsa essenziale per il mercato del lavoro.

  2. L’introduzione di una maggiore responsabilità nei lavoratori, che potrebbero beneficiare di una maggiore flessibilità nella gestione degli impegni professionali e familiari.

I meccanismi di flessibilità esistenti, come i congedi, il lavoro ripartito, il part-time o la settimana corta, sono strumenti validi, ma è fondamentale che le organizzazioni siano in grado di intercettare i bisogni dei lavoratori e adattare i propri modelli organizzativi di conseguenza. L’obiettivo è creare un equilibrio in cui tutti possano trarne vantaggio, senza dover rinunciare né alla carriera né alla famiglia”.

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